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25 settembre 2003

Il dilemma dell'innovatore

Scottati dal grande incendio delle dotcom, i vertici aziendali di tutto il mondo industrializzato si sono ritirati nel loro guscio, lanciando occhiate feroci a chiunque venisse a parlare di innovazione. I primi 42 mesi del nuovo millennio sono stati dominati dai tagli su tutti i fronti, soprattutto su quello della ricerca e sviluppo. Ma dopo tre anni di trincea, insieme alla timida ripresa borsistica dei tecnologici si sta riprendendo anche il dibattito sull'innovazione, perché ogni buon amministratore delegato sa che per competere con successo sul lungo periodo la sua azienda ha bisogno di inventarsi nuovi prodotti, servizi e modelli di business. I primi contributi al dibattito che si sta riaccendendo restano prudenti, ci ricordano che per fare innovazione non occorre essere Archimede, basta operare in un buon team, capace di guardare con occhio critico alle idee già esistenti per riassemblearle in modo nuovo. Così ha fatto Henry Ford quando ha inventato la catena di montaggio, copiata dal modo in cui funzionavano allora i macelli. Ford - come Thomas Edison - non era un genio isolato, ma lavorava proficuamente insieme a un team di ingegneri di talento. "Questi grandi imprenditori - spiega Andrew Hargadon, docente alla Business School dell'università della California, nel suo ultimo libro How Breakthroughs Happen - non sono più intelligenti, più coraggiosi, tenaci o ribelli di tutti noi. Hanno semplicemente una cerchia più vasta di relazioni". Lo stesso si potrebbe dire delle organizzazioni. Le compagnie più innovative, infatti, sviluppano dei meccanismi per cogliere idee e tecnologie da una vasta cerchia di settori diversi e ricombinarle in modo nuovo. Mark Goldston, ad esempio, l'uomo del marketing che negli anni Ottanta ha guidato Reebok alla produzione delle leggendarie scarpe da basket Reebok Pump, aveva fatto esperienza nell'industria farmaceutica e ha tratto da lì la tecnologia per creare la prima scarpa gonfiabile della storia. E' proprio per la loro vasta rete di contatti che secondo Hargadon le conglomerate hanno più occasioni di innovare rispetto alle imprese monotematiche, perché raccolgono al proprio interno esperienze provenienti da settori completamente diversi. Quando queste esperienze si incrociano, come spesso succede nel walzer dei manager, sboccia la novità. Hargadon spezza anche una lancia in favore dei distretti industriali, dove competenze diverse si concentrano su un unico obiettivo, creando un traffico d'idee molto più articolato di quello presente nelle aziende che operano isolate. Non a caso i distretti industriali italiani affascinano tutti gli studiosi dell'innovazione. Su un piano di ragionamento ancora più allargato, libri come quello di Hargadon sollevano una delle questioni di fondo che perseguiteranno gli amministratori delegati di questo secolo: come instillare nelle moderne imprese, costruite per il mercato e la produzione di massa, anche le forze dell’innovazione, necessarie per restare rilevanti? Questo è precisamente l’interrogativo che si pone Gary Hamel, uno dei più noti guru del management e docente alla London Business School, nel suo saggio In Search of Resilience appena pubblicato dalla Harvard Business Review. Hamel, uno dei profeti della net economy, crede molto nella necessità delle aziende di “reinventarsi dinamicamente con l’evolversi delle circostanze”. Il problema, secondo Hamel, è che di solito gli azionisti chiamano ai vertici delle aziende un manager incaricato di rinnovare il modello di business quando ormai i buoi sono già scappati: “Una ristrutturazione aziendale non è altro che un processo innovativo rimandato troppo a lungo”. Eppure affidarsi solo ai cambiamenti al vertice per introdurre delle innovazioni è un’idea da dittatura del Terzo mondo più che da democrazia occidentale. “Sembra che nel mondo del business – sostiene Hamel - l’unico modo per cambiare rotta sia di cambiare leader. Ma così le imprese evitano di raccogliere la sfida più importante, cioè la costruzione di organizzazioni capaci di rinnovarsi dall’interno in maniera dinamica”. In questo mondo sempre più convulso, in cui è diventato ancora più difficile di una volta mantenere saldamente in mano le redini del successo una volta conquistate, la durata media di un amministratore delegato al vertice di un’azienda negli Usa ormai è scesa a quattro anni. E le imprese grandi e piccole si trovano sempre più spesso nella necessità di introdurre aggiustamenti di rotta strutturali, molto più complicati dei cambiamenti marginali, come l’introduzione di un nuovo sistema informatico. Hamel cita McDonald’s per fare l’esempio di un colosso di grande successo che si è fatto superare dai tempi senza reagire e Sun Microsystems per la miopia con cui è rimasta ai margini del mondo open-source di Linux. Non a caso proprio in questi giorni assistiamo a un radicale restyling dei locali “burger and Coke” in classico stile McDonald’s, che sembrano perdere sempre più il favore del pubblico. Ma sarà sufficiente? La soluzione a questo dilemma ce la fornirà forse in ottobre Clayton Christensen, docente alla Harvard Business School e autore acclamato, con il suo nuovo The Innovator’s Solution, il seguito del best seller mondiale The Innovator’s Dilemma. Nel suo primo libro, Christensen cercò di sfatare alcuni miti che circondano le ragioni per cui certe aziende perdono il treno dell’innovazione e restano a terra per non rialzarsi più, sostenendo che i loro manager si focalizzano troppo sulle esigenze della clientela più tradizionale, ma ignorano le innovazioni di nicchia e spesso si fanno prendere alla sprovvista da quanto questo tipo di innovazioni siano capaci di cambiare le condizioni del loro business. Con il suo nuovo libro, Christensen vuole offrire ai manager una soluzione a questo problema, sostenendo che l’innovazione non è così imprevedibile come si può credere. Malgrado gli effetti delle innovazioni siano abbastanza difficili da prevedere, il modo in cui queste si sviluppano e crescono all’interno delle aziende è sempre lo stesso. “Chi riesce a capire e a gestire le forze che influenzano questo processo - spiega Christensen – sono anche in grado di concepire dei piani di business capaci di restare sempre sulla cresta dell’onda”. Dopo anni di studi e di approfondite ricerche su centinaia di aziende di diversi settori, l’autore è riuscito a identificare e descrivere questo tipo di processi, per offrire ai manager ansiosi di andare al passo con i tempi la possibilità di ritagliare le loro strategie a misura di un mondo in rapida evoluzione.

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