29 marzo 2004
E' il mercato che traina il laboratorio
Di norma il trasferimento tecnologico parte da un' idea, dall' applicazione di una scoperta scientifica, che si trasforma poi in impresa e infine fa i conti con il mercato. «Ma così si va nella direzione sbagliata: per essere davvero efficaci bisogna partire dall' analisi del mercato e poi soddisfare la domanda d' innovazione indirizzando le ricerche là dove servono per battere la concorrenza, oppure per sfruttare un' area di grandi opportunità». Gian Nicola Babini, direttore dell' Istituto di scienza e tecnologia dei materiali ceramici di Faenza, fiore all' occhiello del Cnr, è un uomo del «fare». Il suo istituto non si appoggia a un' università come gli altri: «Qui abbiamo le imprese», dice. E tanto basta. Anzi, visto che non c' è, l' università la fa lui, ospitando il corso di laurea in chimica dei materiali dell' Università di Bologna e alimentando così il gioco di sponda tra formazione e impresa tipico di un distretto opulento come quello delle piastrelle. Nell' area dei materiali tradizionali, che partono dall' argilla e trovano applicazione nell' edilizia, la domanda d' innovazione non manca: un tempo ci volevano 5 giorni per cuocere una piastrella, oggi 5 minuti. «C' è un' agguerrita concorrenza estera - spiega Babini - bisogna mantenersi un passo avanti agli altri». Tutt' altra musica sui materiali avanzati di sintesi, che godono di straordinarie prospettive e del massimo impegno nell' istituto di Faenza, ma di scarsissima attenzione da parte delle imprese: «Le applicazioni sono vastissime, dai sensori alle navette spaziali, ma questi materiali ceramici vengono usati in forma miniaturizzata all' interno di dispositivi più complessi, prodotti da quella grande industria che in Italia non esiste più. Così siamo finiti a stringere un accordo con i giapponesi, e abbiamo fondato a Kyoto un Istituto di ricerca per le nanoscienze, per poter usare le loro apparecchiature avanzatissime. Da questi studi nascerà uno spin-off insieme a StMicroelectronics e al Centro Sviluppo Materiali di Roma», racconta Babini. Ma nel Cnr questa non è l' unica storia di successo, fa notare Enrico Drioli, uno dei massimi esperti mondiali di tecnologia delle membrane e direttore dell' omonimo istituto, con sede a Cosenza. «I campi di applicazione consolidati sono nel lattiero-caseario, vitivinicolo, farmaceutico, ma si stanno aprendo prospettive enormi, dalle celle a combustibile agli organi artificiali». L' istituto di Drioli, che ha appena fondato un centro di ricerca sino-italiano sulla tecnologia delle membrane a Pechino, lavora quasi esclusivamente con finanziamenti privati e trasferisce il suo know-how a una miriade di piccole e medie imprese. «Il problema - spiega però Luciano Caglioti, ordinario di chimica alla Sapienza e consulente del Cnr - non è certo il know-how da trasferire, ma la domanda che manca». A questo squilibrio cerca di dare risposta l' Area di ricerca di Trieste, uno dei principali parchi scientifici d' Europa: con il Sincrotrone, il laboratorio Tasc (Tecnologie avanzate e nanoscienze), la Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa), il Centro di fisica teorica e l' Università, la città vanta una concentrazione di ricerca scientifica di 40 ricercatori per ogni mille abitanti, 10 volte superiore alla media italiana, ma non abbonda di imprenditorialità. «Cerchiamo di usare questa massa critica di ricerca multidisciplinare per attirare le imprese interessate all' innovazione, soprattutto nei due settori in cui siamo più all' avanguardia, la medicina molecolare e le nanotecnologie», spiega Maria Cristina Pedicchio, presidente dell' Area. Proprio da questi settori derivano gli spin-off di maggior successo: da Lay Line Genomics, famosa per aver prodotto un topo transgenico utilizzato per combattere l' Alzheimer, a Ape Research, unico produttore italiano di microscopi a sonda. «Dalla nostra università sono stati depositati ben 9 brevetti in un anno, un ritmo molto elevato rispetto alla media italiana», commenta Domenico Romeo, rettore dell' ateneo triestino. In funzione di stimolo all' imprenditorialità, l' attenzione per la proprietà intellettuale verrà presto affiancata dalla partecipazione dell' università di Trieste al Premio per l' innovazione, partito dall' università di Bologna insieme al Politecnico di Torino, quello di Milano, alle università di Padova e di Udine e destinato ad allargarsi quest' anno a una dozzina di atenei. «Visto il successo dell' ultima edizione, stiamo tentando il networking anche a livello internazionale», precisa Vincenzo Pozzolo del Politecnico di Torino, presidente dell' incubatore che organizza il premio Galileo Ferraris. Pozzolo ha portato l' esperienza italiana a Cambridge, al congresso di tutte le competizioni mondiali di questo genere, concorsi fra idee imprenditoriali hi-tech premiate anche in base al realismo dei business plan. Nel caso italiano, i vincitori dei concorsi organizzati dagli incubatori dei 5 atenei si sono misurati fra loro per la prima volta l' anno scorso: Optimus, apparecchio per il trattamento di patologie dell' occhio con il laser, realizzato all' università di Udine, ha vinto il primo premio. I progetti capaci di superare la selezione sono poi sostenuti anche nell' ambito della fondazione Torino Wireless, che ha il compito di valorizzare le start-up più meritevoli. Sperando che prima o poi scocchi la scintilla e una di loro cominci a correre.
28 marzo 2004
Vivere low cost
Il consumatore si fa sempre più attento. Compra poco e soprattutto "low cost". E' il trionfo dell'unbranded, categoria multiforme e difficile da incasellare, composta da varie correnti di pensiero, tutte accomunate dal taglio dei costi di marketing per offrire prodotti equivalenti a quelli tradizionali ma meno cari. Dal farmaceutico agli alimentari, dall'elettronica al trasporto aereo e perfino ai servizi finanziari, le scorciatoie pagano: il salto del budget pubblicitario o di un passaggio nella catena distributiva ha portato all'ascesa rapidissima di piccole aziende flessibili e determinate, che mettono sempre più in difficoltà i marchi consolidati. "Ma attenzione, non è un fenomeno di natura congiunturale - spiega il sociologo Enrico Finzi, presidente di Astra Demoskopea - e non va messo in relazione con la crisi dei consumi. Si tratta di una vera e propria rivoluzione, in cui diversi fenomeni s'incrociano e interagiscono, portando i consumatori a rifiutare le grandi marche e a trovare soluzioni alternative".
Basta guardare il settore farmaceutico. Il valore al dettaglio dei farmaci generici a livello mondiale è ormai di circa 62 miliardi di dollari, pari al 13% del mercato complessivo. Ma nel prossimo triennio questa tipologia di medicinali, prodotti con i principi attivi dei farmaci griffati a cui è scaduto il brevetto, dovrebbe lievitare del 10% all'anno, anche perché nei prossimi anni diventeranno off-patent una serie di molecole importanti, che aumenteranno il potenziale mercato dei generici di 19 miliardi di dollari. La crescita tumultuosa dei generici sta già mettendo in grave difficoltà le major della sanità e scatenando un'altra ondata di concentrazioni nel settore: l'esempio più recente è il tentativo della svizzera Novartis di fondersi con la franco-tedesca Aventis, che creerebbe un gigante mondiale secondo soltanto a Pfizer. Leader globale dei generici è Teva, azienda farmaceutica israeliana con un giro d'affari di 3,3 miliardi di dollari nel 2003, seguita da Sandoz, Watson, Mylan, Ivax, Merck. L'Italia è principalmente coperta da Dorom, Doc, Eg e Ratiopharm, seguite da Merck, Sandoz e Teva. Già oggi in Nord America, Regno Unito e Germania i generici rappresentano oltre un terzo del mercato farmaceutico, mentre l'incidenza scende molto in Francia (8%), Spagna (6%) e Italia (3%). La loro forza, naturalmente, sta nel prezzo, mediamente inferiore del 65% rispetto al farmaco originale. Ma sulla loro diffusione incidono molto le condizioni regolatorie e il livello di concorrenza vigente nei vari Paesi: il ritardo dell'Italia sui brevetti, ad esempio, ha molto compresso lo sviluppo di questo mercato.
"Il trionfo dell'unbranded - commenta Finzi - discende soprattutto da quattro fattori: da un lato la sensazione che le marche tradizionali non offrano necessariamente una migliore qualità rispetto, ad esempio, ai prodotti marchiati dalla grande distribuzione; in secondo luogo le esperienze negative che fanno perdere legittimità alle grandi marche (come quella recentissima dell'acqua minerale Dasani nel Regno Unito, dove la Coca-Cola imbottigliava l'acqua di rubinetto filtrata vendendola a due sterline al litro, ndr); in terzo luogo una forma di dandysmo dei consumatori, che comprano prodotti taroccati per spirito di contraddizione; infine la necessità di scegliere prodotti meno cari per non rinunciare a determinati consumi in tempi di crisi". La diffusa inadeguatezza da parte dei marchi tradizionali a cogliere la natura permanente del fenomeno, naturalmente, aggrava la loro situazione.
Non a caso in Europa i marchi del distributore (in gergo private-label) occupano ormai un quarto del mercato dei prodotti di largo consumo. Venduti nelle grandi catene di supermercati con il marchio del rispettivo distributore - da Carrefour a Esselunga, da Coop a Conad - i prodotti private-label non hanno bisogno di marketing perché basta esporli bene sugli scaffali e appendere qua e là qualche annuncio negli stessi supermercati. Quindi costano meno degli altri. E la qualità non solo è equivalente, ma spesso addirittura identica, visto che diverse grandi marche - da Kraft a Nestlé, da Kimberly-Clark a Unilever - producono entrambe le tipologie, che finiscono poi magari sullo stesso scaffale con etichette diverse. E prezzi assai lontani. Non c'è quindi tanto da stupirsi se gli spaghetti Barilla o lo yogurt Parmalat sembrano perfettmanete equivalenti ad analoghi prodotti marchiati Carrefour o Coop. Magari vengono dal medesimo stabilimento.
Stesso discorso vale per l'elettronica, dove i pc assemblati e le cartucce per stampanti rigenerate ormai la fanno da padroni. Con quasi 220mila pc venduti nel 2003, ad esempio, Computer Discount è ormai il primo produttore italiano di desktop, che malgrado l'avvento di notebook e pda mantengono pur sempre un ruolo preminente come piattaforma d'uso in questo settore. E altri esempi si potrebbero fare: dai viaggi no frills (cioè senza fronzoli), volando a costi bassissimi e acchiappando le offerte dell'ultimo minuto, alla musica online. Quando il gioco si fa duro, vincono i creativi.
26 marzo 2004
Skype, alle volte ritornano
Che sia il secondo centro per Niklas Zennstrom e Janus Friis, i due scandinavi che hanno inventato Kazaa, il più popolare servizio di file-sharing del mondo?
Da quando hanno venduto la loro prima creatura all'australiana Sharman Networks nel 2002, lo svedese Zennstrom e il danese Friis stanno lavorando in gran segreto a un servizio di telefonia su Internet, Skype, che negli ultimi sei mesi è stato scaricato da nove milioni di utenti in 170 Paesi, un ritmo superiore a quello di Hotmail quand'era al suo apice. Skype non è l'unico servizio al mondo che offra voce su protocollo Internet (Voip), ma la qualità del suono e la facilità di utilizzo ne stanno facendo un leader. Il software si usa con una cuffia e un microfono, usando Internet per collegarsi con qualsiasi altro utente nel mondo dotato dello stesso software. A differenza di altri servizi di voce su protocollo Internet, non passa mai per le linee telefoniche e quindi non deve pagare l'accesso agli altri operatori, uno dei principali costi sostenuti dalle compagnie telefoniche (AT&T spende quasi dieci miliardi all'anno, l'uscita più rilevante del suo bilancio, per passare sulle linee degli altri).
Per ora Skype ha raccolto venti milioni di finanziamenti per sviluppare il suo business, che si basa sul concetto di chiamate gratuite ma servizi aggiuntivi a pagamento. I giganti del mercato, come AT&T negli Usa e BT nel Regno Unito, si stanno attrezzando per contrastare la sua ascesa. Anche Tiscali sta per entrare in questo mercato. E tutti sostengono che il servizio offerto da Skype è troppo primitivo per dilagare. Certo è che il loro primo software, Kazaa, è stato scaricato da 314 milioni di utenti. Questo non ha portato a Zennstrom e Friis grandi utili, ma ha rivoluzionato senza possibilità di ritorno il mercato della musica, devastando i conti delle major. Non è detto che anche Skype sia destinato a un successo di queste dimensioni, ma per ora le premesse ci sono. A questo punto la redditività del business e quindi le sue prospettive di crescita dipendono molto dall'abilità imprenditoriale dei due scandinavi.
Che ci sia un futuro per Skype, comunque, si vede già dalla velocità con cui fioccano i finanziamenti. Malgrado i due stiano lavorando molto sottotono, anche perché scottati dall'esperienza di Kazaa (hanno due cause pendenti contro di loro intentate dalle major musicali negli Usa e in Olanda), tutti i principali produttori di cuffie, compreso il leader mondiale Plantronics, si stanno precipitando su questa opportunità. Per non parlare del venture capital di Silicon Valley, da dove una delle principali società, la Draper Fisher Jurvetson, ha già investito oltre otto milioni in questa prima tornata. Per ora il software è diffuso soprattutto tra gli utenti di servizi peer-to-peer, che conoscevano già Zennstrom e Friis attraverso Kazaa. Anche Skype utilizza lo stesso sistema, basandosi sui computer degli utenti per far transitare le telefonate, senza un server centrale. Per Zennstrom e Friis, quindi, il costo non cambia con un milione o dieci milioni o cento milioni di telefonate in linea. E questo consente loro di offrire gratuitamente il servizio base.
Skype funziona come i servizi di instant messaging: l'utente scarica il software sul suo computer, selezione uno screen name e crea una lista di compagni che usano lo stesso software. Ogni volta che uno di loro è online, Skype manda un segnale al network, che indica la presenza dell'utente e il suo numero. Per chiamare, gli altri cliccano su un'icona telefonica che compare sullo schermo e i due computer si collegano. Invece di vibrare attraverso il doppino di rame, la voce viene confezionata in pacchetti di dati che viaggiano attraverso Internet e poi vengono riassemblati all'altro capo della connessione. I computer più veloci connessi al network di Skype funzionano come centralini, mantenendo aggiornata la lista dei presenti in linea e smistando il traffico delle chiamate. Per ora la media degli utenti in linea con Skype in qualsiasi momento della giornata è di mezzo milione.
Data la dimensione dell'utenza e le prospettive di crescita, Platnronics ha già stretto un accordo con i due fondatori per mettere anche il marchio di Skype sulle sue cuffie e offrire delle promozioni, ad esempio due mesi di servizi aggiuntivi gratis. Per adesso i servizi premium sono solo due: un servizio di segreteria telefonica e un sistema per collegarsi alla rete telefonica locale. La società ha anche venduto a Siemens la licenza per incorporare il suo software nelle future generazioni di telefoni cordless venduti in Europa. Quando Skype uscirà dai circoli chiusi degli studenti universitari e degli utenti di servizi peer-to-peer, l'industria europea è già pronta ad accoglierlo.
22 marzo 2004
Alla pompa non si fa il pieno di concorrenza
Se volete un pieno davvero economico, fate una capatina in Austria: lì un litro di benzina costa in media 86 cent (in Italia 1,08 euro). Ma anche in Francia, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia si viaggia sotto un euro al litro e in tutti gli altri Paesi dell' Unione (tranne Olanda e Danimarca) il prezzo medio è inferiore al nostro. Si tratta di mercati dove la fiscalità è molto alta (circa due terzi del prezzo alla pompa, come in Italia) e quindi la benzina non può costare 40 cent come negli Usa, dove allo Stato va meno di un terzo. Eppure, la vivace concorrenza che regna su questi mercati spinge il prezzo al ribasso. Cosa che in Italia non succede. E le prospettive non sono rosee: da gennaio a marzo qui il prezzo industriale della benzina è aumentato del 9,1% (contro un +6,4% negli altri Paesi europei), mentre ulteriori rincari sono previsti a giorni, con effetti a cascata su altri prodotti tradizionalmente collegati, come gli ortofrutticoli. E' per questo che un dossier sulla mancanza di concorrenza nel mercato italiano dei carburanti, firmato da Auchan, Carrefour, Finiper e Coop, giace da qualche giorno sul tavolo di Mario Monti. Comitato «Naturalmente il governo potrebbe incidere sulla fiscalità e proprio a questo scopo stiamo costituendo un comitato congiunto con i consumatori, per individuare quali potrebbero essere le misure condivise - spiega il sottosegretario alle Attività produttive Giovanni Dell' Elce -. Ma il problema vero sta soprattutto nei vincoli che in Italia continuano a limitare lo sviluppo di una rete di distribuzione moderna. I regolamenti locali, che creano diversificazioni ingiustificate da regione a regione, andrebbero uniformati e snelliti». «Del prezzo alla pompa, il 68% va in tasse e il 20% circa in materia prima, a seconda delle quotazioni internazionali. L' unica parte contendibile del prezzo della benzina in Italia è quel 12% che resta e va a remunerare l' investimento, a pagare i gestori, gli impianti e a coprire il trasporto, di regola via mare visto che quasi tutte le raffinerie stanno sulle isole», spiega Piero De Simone dell' Unione petrolifera, che rappresenta i proprietari del 70% delle pompe di benzina italiane. «E' vero - conferma De Simone - che il 12% si potrebbe comprimere se il sistema fosse più efficiente, se i benzinai fossero di meno e, quindi, vendessero di più, se non vivessero di solo carburante ma anche di altri prodotti, come all' estero, e se ci fossero più distributori fai-da-te. Ma una rete così estesa non si smantella dall' oggi al domani». Soprattutto se la si ostacola. «La riforma del ' 98 prevedeva un taglio di 7mila impianti in tre anni - commenta Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Faid, che rappresenta la grande distribuzione - ma a sei anni di distanza l' operazione non è ancora conclusa. Oggi in Italia ci sono oltre 22mila distributori contro i 15mila in Francia e in Germania, gli 11mila nel Regno Unito e gli 8500 in Spagna. La vendita diretta della benzina a prezzi scontati nei centri commerciali è quasi a zero: in Italia sono solo quattro i distributori a insegna nostra, mentre in Francia il 55% delle vendite passa per questo tipo di canali. Eppure, il mancato ammodernamento della rete dei carburanti costa al Paese uno 0,1% del Pil, in termini di caro- benzina. In pratica, è lo stesso problema che mantiene sproporzionatamente alti anche i prezzi negli alimentari e nel tessile». «Nel nostro centro commerciale di Nichelino - chiarisce Cesare Magni di Carrefour, che ha 3 dei 4 benzinai della grande distribuzione in Italia - per tutto febbraio abbiamo venduto la benzina a 8 centesimi di meno rispetto al prezzo consigliato dalle compagnie petrolifere. Con un effetto domino sui benzinai circostanti, per cui i consumatori di tutto il Torinese ne hanno beneficiato. Ma se riuscissimo ad aprire altri distributori nei nostri 40 ipermercati potremmo arrivare a sconti ancora più alti». Lo sconto discende dai volumi (un benzinaio Carrefour smercia 10 milioni di litri l' anno, contro una media italiana di un milione e mezzo di litri), ma anche dal fatto che la grande distribuzione compra la benzina direttamente dalle raffinerie. Autorizzazioni «Ci auguriamo di poter installare una stazione di servizio a bandiera Auchan in quanti più possibili dei nostri 38 centri commerciali», sottolinea Benoit Lheureux, capo di Auchan-Rinascente, che finora è riuscito ad aprirne soltanto una nel centro commerciale di Bussolengo, alle porte di Verona. Auchan ha chiesto le relative autorizzazioni in tutte le regioni dov' è presente, ma gli ostacoli burocratici sono infiniti. «Il blocco - spiega Magni - deriva, soprattutto, da due ordini di norme, quelle che definiscono una certa area a numero chiuso, dove non si può aprire un distributore se prima non se ne elimina un altro (in Lombardia addirittura altri due), e quelle che creano un' area di esclusiva fra le varie stazioni di servizio. Ma siccome in Italia di benzinai ce ne sono tantissimi, dovunque se ne voglia aprire uno nuovo ce n' è sempre già un altro». Anche Giuseppe Fabretti, vicepresidente Coop, ha tentato invano di fare breccia nei regolamenti regionali per installare qualche benzinaio nei 67 centri commerciali della catena. «A questo punto - ragiona Fabretti - non ci resta che ricorrere a Bruxelles, perché la deregulation è ferma».
18 marzo 2004
La Borsa elettrica non scalda gli operatori
L'Italian Power Exchange funziona. I tre mercati che compongono la Borsa elettrica sono operativi, anche se resta qualche problemino sulle misurazioni. Quindi bando alle incertezze: il 1° aprile, come previsto, si parte. Dopo tre anni di rinvii, siamo al taglio del nastro.
Ma l'atmosfera festosa che regna al ministero delle Attività produttive lascia freddini gli operatori. Restano infatti irrisolte alcune questioni di fondo che inevitabilmente creeranno delle distorsioni. Innanzitutto la carenza di energia: in un mercato dove la materia prima continua a scarseggiare, inevitabilmente il prezzo lo farà il produttore con più potenza di fuoco, che è ancora l'Enel. E non si potrà fare a meno di mettere in campo anche le centrali meno efficienti. Lungi dall'abbassare i prezzi, insomma, l'avvio della Borsa rischia di spingerli in alto. Sembrerebbe naturale mettere in relazione a questo dato di fatto la recente delibera con la quale l'Autorità per l'energia ha tagliato del 5-7% la base di calcolo delle tariffe per i mesi di marzo-aprile-maggio, concentrando le remunerazioni più alte in estate. Dopo l'esperienza dell'anno scorso, quando ci si è resi conto che il picco della domanda si sta spostando verso giugno, l'Autorità cerca di calmierare il prezzo abbassandolo nel trimestre precedente. In questo modo offre anche alla Borsa una base più bassa da cui partire. Un trucco non privo di logica, peccato che l'operazione sia stata messa in atto con i contratti già in essere, causando una perdita secca ai produttori e grossisti che avevano già venduto l'energia sulla base delle vecchie tariffe. Di qui la decisione di molti operatori di ricorrere al Tar della Lombardia per ottenere una sospensiva del provvedimento. E la richiesta, nell'ultima riunione tenuta al ministero, di far slittare a ottobre la partenza della Borsa. Con i prezzi amministrati, infatti, almeno i produttori avrebbero la certezza di recuperare il mancato incasso sui mesi in corso.
Ma il governo si sente il fiato sul collo e non vuole deludere con un ulteriore rinvio la Commissione europea, che ha già deprecato più volte la lentezza della liberalizzazione italiana. Inoltre slittare ancora infliggerebbe una mazzata colossale a cui vuole investire nel settore ma attende l'avvio della Borsa come uno sbocco sicuro per mettere in vendita la propria produzione. In definitiva, l'Ipex porterà un maggiore trasparenza e potrebbe riuscire a sbloccare l'impasse all'origine del blackout di settembre. Se riuscirà a vedere la luce.
17 marzo 2004
La casta dei benzinai
Se volete un pieno davvero economico, fate una capatina in Austria: lì un litro di benzina costa in media 86 cent, in Italia 1,08 euro. Ma anche in Francia, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia si viaggia sotto un euro al litro e in tutti gli altri Paesi dell'Unione (tranne Olanda e Danimarca) il prezzo medio è comunque inferiore al nostro. Si tratta di mercati dove la fiscalità è molto alta (circa due terzi del prezzo alla pompa, come in Italia) e quindi la benzina non può costare 40 cent come negli Stati Uniti, dove allo Stato va meno di un terzo. Eppure la vivace concorrenza che regna su questi mercati spinge il prezzo al ribasso. Cosa che in Italia non succede. E le prospettive non sono rosee: da gennaio a marzo qui il prezzo industriale della benzina è aumentato del 9,1% (contro un +6,4% negli altri Paesi europei), mentre ulteriori rincari sono previsti a giorni, con effetti a cascata su altri prodotti tradizionalmente collegati, come quelli ortofrutticoli. E' per questo che un dossier sulla mancanza di concorrenza nel mercato italiano dei carburanti, firmato da Auchan, Carrefour, Finiper e Coop, giace da qualche giorno sul tavolo di Mario Monti.
"Naturalmente il governo potrebbe incidere sulla fiscalità e proprio a questo scopo stiamo costituendo un comitato congiunto con i consumatori, per individuare quali potrebbero essere le misure condivise", spiega il sottosegretario alle Attività produttive Giovanni Dell'Elce. "Ma il problema vero - fa notare Dell'Elce - sta soprattutto nei vincoli che in Italia continuano a limitare lo sviluppo di una rete di distribuzione moderna. I regolamenti locali, che creano diversificazioni ingiustificate da regione a regione, andrebbero uniformati e snelliti". "Del prezzo alla pompa, il 68% va in tasse e il 20% circa in materia prima, a seconda delle quotazioni internazionali. L’unica parte contendibile del prezzo della benzina in Italia è quel 12% che resta e va a remunerare l’investimento, a pagare i gestori, gli impianti e a coprire il trasporto, di regola via mare visto che quasi tutte le raffinerie stanno sulle isole”, spiega Piero De Simone dell’Unione petrolifera, che rappresenta i proprietari del 70% delle pompe di benzina italiane. “E’ vero – conferma De Simone - che quel 12% si potrebbe comprimere parecchio se il sistema fosse più efficiente, cioè se i benzinai fossero di meno e quindi vendessero di più, se non vivessero di solo carburante ma anche di altri prodotti, come succede all’estero, e se ci fossero più distributori fai-da-te. Ma una rete così estesa non si smantella dall’oggi all’indomani”. Soprattutto se ci sono forti interessi che resistono alla deregulation.
“La riforma del ’98 prevedeva un taglio di 7mila impianti in tre anni – commenta Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Faid, che rappresenta la grande distribuzione - ma a sei anni di distanza l’operazione non è ancora conclusa. Oggi in Italia ci sono oltre 22mila distributori contro i 15mila in Francia e in Germania, gli 11mila nel Regno Unito e gli 8500 in Spagna. La vendita diretta della benzina a prezzi scontati nei centri commerciali è quasi a zero: in Italia sono solo quattro i distributori a insegna nostra, mentre in Francia il 55% delle vendite passa per questo tipo di canali. Eppure il mancato ammodernamento della rete dei carburanti costa al Paese uno 0,1% del Pil, perché una maggiore concorrenza consentirebbe di ridurre significativamente il prezzo della benzina. In pratica è lo stesso problema che mantiene sproporzionatamente alti anche i prezzi negli alimentari e nel tessile”. “Nel nostro centro commerciale di Nichelino – chiarisce Cesare Magni di Carrefour, che ha tre dei quattro benzinai a insegna della grande distribuzione esistenti in Italia - per tutto febbraio abbiamo venduto la benzina a 8 centesimi di meno rispetto al prezzo consigliato dalle compagnie petrolifere, nell’ultimo anno lo sconto è stato in media di 6 centesimi. E questo ha avuto un effetto domino sui benzinai circostanti, per cui i consumatori di tutto il Torinese ne hanno beneficiato. Ma se riuscissimo ad aprire altri distributori nei nostri quaranta ipermercati potremmo arrivare a sconti ancora più alti”. Lo sconto discende dai volumi (un benzinaio Carrefour smercia dieci milioni di litri all’anno, contro una media italiana di un milione e mezzo di litri), ma anche dal fatto che la grande distribuzione compra la benzina direttamente dalle raffinerie, accorciando così la filiera e guadagnando margini di manovra che gli altri benzinai non hanno.
“Ci auguriamo di poter installare una stazione di servizio a bandiera Auchan in quanti più possibili dei nostri 38 centri commerciali”, sottolinea Benoit Lheureux, a.d. di Auchan-Rinascente, che finora è riuscito ad aprirne soltanto una nel centro commerciale di Bussolengo, alle porte di Verona. Auchan ha chiesto le relative autorizzazioni in tutte le regioni dov’è presente, ma gli ostacoli burocratici sono infiniti. “Il blocco – spiega Magni - deriva soprattutto da due ordini di norme, quelle che definiscono una certa area a numero chiuso, dove non si può aprire un distributore se prima non se ne elimina un altro (in Lombardia addirittura altri due), e quelle che creano un’area di esclusiva fra le varie stazioni di servizio. Ma siccome in Italia di benzinai ce ne sono tantissimi, dovunque se ne voglia aprire uno nuovo ce n’è sempre già un altro”. Anche Giuseppe Fabretti, vice presidente Coop, ha tentato invano di fare breccia nei regolamenti regionali per installare qualche benzinaio nei 67 centri commericali della catena. “A questo punto – ragiona Fabretti - non ci resta che ricorrere a Bruxelles, perché la deregulation è ferma”.
15 marzo 2004
Macchè rigore, la gente cerca il sogno
Nel 2003 la propensione al consumo degli italiani è rimasta sotto i livelli del 2000, dopo due anni di contrazione. Il 2004 si annuncia come un anno freddo per gli acquisiti di beni durevoli. «Ma in tempi di crisi come questi ci vuole leggerezza». Per Giuseppe Cogliolo di McCann-Erickson, una delle due più grandi agenzie pubblicitarie del mondo, i consumatori italiani reagiscono al calo del potere d' acquisto fuggendo verso il sogno. Altro che ritorno al rigore: turismo e bellezza vanno a gonfie vele e le grandi marche restano un faro che attira molto. «Il consumatore diventa più esigente, ma non rinuncia ai suoi standard. Piuttosto va alla ricerca di punti vendita dove riesce a ottenere gli stessi prodotti a costi più contenuti», conferma Enrico Valdani, docente di marketing alla Bocconi e partner di Valdani Vicari & Associati. «Più che il calo del potere d' acquisto, è il passaggio dalle certezze dell' Italia familiare alle incertezze del lavoro atipico e delle pensioni sfumate a preoccupare i consumatori», nota Marco Fanfani di Tbwa, l' avversaria globale di McCann. Per i pubblicitari si tratta di adattarsi a questo nuovo modello di vita degli italiani, che include oscillazioni più ampie e quindi maggior senso critico, ma non rinuncia alla componente ludica che ne fa parte da anni. «Restiamo pur sempre nell' epoca dell' abbondanza, anche se i consumatori sono passati dalle aspettative crescenti tipiche degli ultimi anni 90 alle aspettative decrescenti di oggi», commenta Valdani. Proprio sul dato delle prospettive negative, a cui i consumatori italiani ormai si vanno abituando, si basa la riscossa degli hard discount e delle nuove forme di commercio, dagli spacci aziendali che accorciano la filiera della distribuzione, al punto vendita che diventa punto d' incontro e perfino di emozioni, con installazioni sempre più spettacolari fatte apposta per risvegliare i desideri. «Un segnale di questa svolta nel retail - spiega Cogliolo - è lo sbarco di Lidl, il colosso tedesco del discount, in pubblicità. Mentre la filosofia del discount in genere è contrarissima alle spese pubblicitarie, per non trasferire i ricarichi sui prezzi finali, per Lidl evidentemente in questa fase è importante andare a caccia dei consumatori italiani». Il tempismo è tutto nella vendita al dettaglio. E chiaramente gli italiani sono pronti. «Anche nella crisi del ' 92-' 93, con la svalutazione della lira, i grandi delitti di mafia e la bufera di Tangentopoli, la risposta dei consumatori fu una radicalizzazione verso gli estremi. Da un lato si riducono all' osso le spese di base, per gli alimentari si va all' hard discount e sui prodotti per la casa si confrontano i prezzi al centesimo. Dall' altro lato con quel che resta in tasca ci si permette il viaggio in terre lontane, il terzo telefonino o l' accessorio di marca», nota Fanfani. Rientrano così dalla finestra quei consumi edonistici che a rigor di logica, in una fase di crisi come questa, dovrebbero uscire dalla porta. «In generale soffrono di più i prodotti dei servizi», precisa Cogliolo. In ottemperanza al vero lusso dell' età moderna: il tempo che fugge. «Gli italiani non vogliono più rinunciare ai servizi che fanno risparmiare tempo. E non è una tendenza diffusa solo fra i ceti più abbienti, ma anche ai livelli più bassi della scala sociale. Subito dopo i servizi notiamo una predilezione per i prodotti-servizi, come il telefonino che ti consente di tenerti in contatto con gli altri o il computer con cui navighi in Internet». Perfino i prodotti più materiali, come il caffè o il gelato, cercano di profilarsi come servizio: «Ad esempio si sfrutta la moda del brunch proponendo una guida dei locali migliori, dove naturalmente si serve il caffè che la sponsorizza, oppure un libro di ricette. Insomma le marche fanno di tutto per mettersi in comunicazione diretta con i consumatori, offrendo un servizio clienti migliore e una qualità percettibilmente superiore per giustificare il forte investimento affettivo e smarcarsi così dagli hard discount», dice Cogliolo. «Nel futuro vedo un' accentuazione di questa tendenza, con una fuga dei consumatori verso servizi, come la chirurgia estetica, che più soddisfano i nuovi bisogni di autoaffermazione degli italiani», prevede Valdani. «Il rapido invecchiamento della società è un altro dei cambiamenti che incideranno molto sull' evoluzione dei consumi, portando la gente a privilegiare la cura del corpo per restare il più a lungo possibile nei circuiti sociali preferiti, per non perdere il contatto con il mondo», conclude Valdani. «L' età dell' oro, quella dei pensionandi che hanno sempre più tempo utile davanti a sé e già progettano come trascorrerlo in maniera soddisfacente, rappresenta un' enorme opportunità di business che in questa società giovanilista a ogni costo non è ancora stata presa in considerazione» insiste Cogliolo. «Le epoche di transizione - rileva Fanfani - sono sempre le più difficili. Probabilmente dopo un periodo di sbandamento ci abitueremo a convivere con l' incertezza, come succede in molti altri Paesi del mondo, e i consumi riprenderanno a correre».
14 marzo 2004
La nuova frontiera del mobile marketing
La nuova frontiera europea della pubblicità si chiama mobile marketing. Messaggi testuali o video, suonerie scaricabili, concorsi a premi e buoni sconto sono gli strumenti più usati per insinuarsi nella nostra quotidianità attraverso i piccoli schermi dei telefonini. In un continente dove ormai la telefonia mobile ha di gran lunga superato le linee fisse e dove ci sono in media 73 telefonini ogni cento abitanti, c'era da aspettarselo. In particolare in Italia, il Paese in cui i cellulari sono più diffusi in Europa, possiedono un telefonino 90 individui su cento nella fascia di età più appetibile per le aziende, quella fra i 16 e i 55 anni. Eppure qui da noi il mobile marketing è soltanto agli albori. In Germania e nel Regno Unito, dove in proporzione i cellulari sono meno diffusi, le campagne pubblicitarie mobili sono ormai un fenomeno di massa.
Tutte le grandi marche, da McDonald's a Pepsi, da Wella a Mars, da Wrigley's a Reebock, da Mastercard a Nike, da Nestlé a Ford sono molto attive su questo fronte. I vantaggi del mobile marketing sono evidenti. Da un lato la tecnologia è molto economica da usare: per mandare un messaggino bastano pochi centesimi e se il consumatore stesso, divertito, lo passa avanti è tanto di guadagnato. Dall'altro offre nuove possibilità di identificare le aree geografiche o la tempistica migliore sulla base delle risposte ricevute, consentendo di mirare le campagne con precisione sempre più accurata. Nel Regno Unito la svolta è arrivata con una campagna lanciata all'inizio del 2002 dall'agenzia specializzata FlyTxt per Cadbury, in cui i consumatori venivano invitati a mandare un messaggio a un numero stampato sull'involucro di ogni barretta di cioccolato per sapere se avevano vinto un premio. La campagna ha generato cinque milioni di risposte, una cifra pazzesca per questo tipo di concorsi, e ha avuto l'onore di essere citata nel bilancio di Cadbury come un fattore chiave nella spettacolare crescita del 21% delle vendite annuali. E quando una campagna pubblicitaria finisce in un bilancio, gli altri amministratori delegati se ne accorgono. Ora FlyTxt, leader nel Regno Unito, ha oltre mille campagne al suo attivo per clienti come Coca-Cola, Bayer, Cadbury Schweppes e la Bbc. Un'altra campagna FlyTxt di grande successo è stata quella lanciata per Bayer in Germania, in cui vengono inviate informazioni sul tempo e sui parassiti agli agricoltori, includendo uno slogan pubblicitario su prodotti Bayer e un numero di contatto. MindMatics, un'agenzia che opera da Monaco, Bonn e Londra, si è avventurata invece nel campo dei buoni sconto: il buono arriva sotto forma di messaggio e viene poi riscattato alla cassa passando uno scanner sopra lo schermo. In Germania il sistema è stato usato solo da una catena di negozi di abbigliamento, ma in seguito ha avuto molto successo come veicolo di vendita dei biglietti al festival di Edimburgo, organizzata nel novembre 2003 dall'agenzia britannica Mobiqa.
Il salto di qualità è dimostrato anche dal fatto che per la prima volta una campagna di questo tipo abbia vinto uno degli ambitissimi premi all'ultimo festival della pubblicità di Cannes, che equivale all'Oscar della categoria. Il Leone d'argento è andato a 12snap, un'agenzia nata in Germania ma molto attiva anche nel Regno Unito e in Italia (vedi intervista). 12snap ha vinto con una campagna per la PlayStation2 della Sony che ha interessato 500mila giovanissimi tedeschi nel dicembre 2002: poco prima di Natale i ragazzi hanno ricevuto una telefonata registrata da una nonna molto irritante che minacciava di passare a trovarli per le feste. I chiamati potevano poi girare la telefonata a dei loro amici e contemporaneamente mandare ai propri genitori un altro messaggio, firmato Babbo Natale, in cui si comunicava il loro desiderio di ricevere in regalo la PlayStation2. La campagna ha avuto un effetto sensazionale: secondo una ricerca indipendente citata dai giudici di Cannes, il 25% dei partecipanti ha effettivamente ricevuto una PlayStation, contro il 5% del gruppo di controllo, oggetto di campagne convenzionali.
Con l'ampliamento del mercato, anche le agenzie tradizionali cominciano a sbarcare sul nuovo segmento, alzando la barra della competizione per le specializzate. Il colosso Ogilvy è stato il primo a entrare in questo terreno di caccia finora eslusivo, usando come partner tecnologico la società WIN (Wireless Information Network), ma non è l'unica categoria che guarda con interesse al nuovo fenomeno. Anche qualche operatore mobile, come la britannica O2 (ex BT Wireless), che ha già lanciato una campagna per Mars, si sta organizzando con dei servizi interni. Insomma, come tutti i business che raggiungono una certa maturità, anche qui l'ambiente si sta facendo affollato. Il timore è che se il mobile marketing diventasse onnipresente, la potenza dell'impatto comincerebbe a calare e potrebbe anche instaurarsi un'irresistibile reazione di rifiuto. Secondo gli ultimi sondaggi della società di consulenza Carat Interactive, i consumatori europei non sarebbero disposti a tollerare più di quattro o cinque contatti al giorno e solo da operatori che hanno prima chiesto il permesso di mandarli.
8 marzo 2004
Rete elettrica: pubblica o privata?
Con la riforma Marzano delle politiche energetiche ancora ferma al Senato, la partenza della Borsa elettrica che subisce uno slittamento dopo l' altro e le incertezze normative che frenano la costruzione di nuove centrali, nel mercato elettrico italiano avanza solo la privatizzazione di Terna, rete ad alta tensione di cui Enel deve progressivamente disfarsi per ottemperare all' obbligo di scindere la produzione dalla trasmissione. «Un passo obbligato e opportuno, anche se ho i miei dubbi che una privatizzazione integrale sia compatibile con la sicurezza del sistema», commenta Bruno Tabacci, presidente della Commissione Attività Produttive della Camera, che spezza una lancia a favore del controllo pubblico delle reti. Con il via libera del consiglio di amministrazione dell' Enel, il collocamento di metà di Terna è partito, ma l' orientamento sull' unificazione della rete con il Grtn (il gestore della rete, oggi in capo al ministero dell' Economia e candidato al matrimonio con Terna), deve ancora essere perfezionato con l' approvazione della riforma Marzano. Questo ritardo non sta diventando preoccupante? «Molto preoccupante. Il provvedimento non sta seguendo un percorso lineare al Senato. Così rischiamo di complicare il terzo passaggio alla Camera, dove la riforma dovrà comunque ritornare. Quanto all' unificazione del Grtn con Terna, avverrà sicuramente dopo la quotazione per garantire la massima trasparenza al momento del collocamento. Il progressivo scorporo della rete da Enel e la contestuale unificazione col Grtn sono una buona cosa, perché promuovono la concorrenza in un mercato ancora tutto da sviluppare e risolvono il conflitto d' interessi del proprietario della rete con il suo gestore. Quando la privatizzazione andrà a regime, anzi, sarebbe auspicabile anche un' unificazione con Snam Rete Gas. Ma alla lunga sarebbe opportuno l' ingresso di un azionista neutrale, tipo Cassa depositi e prestiti, che tenga in mano il comando del sistema». Resta il fatto che alla liberalizzazione mancano molti tasselli: la partenza della Borsa, considerata essenziale dagli operatori, slitta ormai da mesi... «Naturalmente l' avvio della Borsa è importante, ma bisogna rendersi conto che è difficile costruire un mercato efficiente in presenza di una carenza di offerta, come quella in cui ci troviamo oggi. È per questo che la partenza viene continuamente rinviata. Inoltre se i contratti bilaterali diventeranno prevalenti rispetto ai volumi scambiati sul mercato, la Borsa elettrica sarà una borsetta priva di qualsiasi rilevanza. Per dar fiato agli scambi bisognerebbe incrementare l' offerta, costruendo nuove centrali o potenziando quelle esistenti, e convogliare il più possibile l' energia disponibile verso la Borsa». Due argomenti scottanti. Da un lato le oscillazioni normative che intralciano i progetti e scoraggiano gli investimenti, dall' altro la mancanza di trasparenza sul fronte dell' offerta - ad esempio con il regime cosiddetto Cip6 o con gli incentivi ai clienti interrompibili - rischiano di bloccare la liberalizzazione del mercato. «I contrasti fra Stato ed enti locali sulle centrali sono un grave ostacolo all' incremento dell' offerta: l' energia non dovrebbe essere materia inclusa nell' articolo 117 della Costituzione, che ho anche proposto di modificare su questo punto. Almeno le centrali sopra i 300Mw dovrebbero essere considerate alla stessa stregua delle grandi infrastrutture e sottoposte solo alla potestà statale». E sulla questione del Cip6? «La Commissione attività produttive ha già invitato il governo a cambiare strada. Il Cip6 garantisce una tariffa molto più alta dei valori di mercato all' energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili e "assimilate", per incentivare la tutela dell' ambiente. Ma le fonti assimilate non sono altro che fonti convenzionali mascherate, con grande apporto di idrocarburi, che hanno ormai quasi completamente fagocitato gli incentivi, coprendo il 13-14% della produzione nazionale (le vere rinnovabili non superano il 4%). In questo modo noi dichiariamo di ottemperare all' accordo di Kyoto e invece non è vero. Ma a quale titolo può essere imposta ai cittadini e alle imprese una tassa occulta a favore dei produttori di energia da fonti assimilate stimata in oltre 30 miliardi di euro in 15 anni?». E gli incentivi ai clienti interrompibili? «Non quadrano. Bisognerebbe distinguere gli interrompibili veri da quelli finti e smettere di concedere sussidi immotivati a chi è interrompibile solo di nome». Insomma questa liberalizzazione pesta troppi piedi per aver vita facile. Che cosa bisognerebbe fare per darle una spinta? «Bisogna avanzare con decisione sulla strada delle privatizzazioni, introdurre maggiore flessibilità nelle autorizzazioni ai nuovi impianti e rendere più chiari i rapporti nella catena di comando del sistema».
1 marzo 2004
L'Eni guiderà le major a Kashagan
Ad Astana, sulla riva del Caspio, Vittorio Mincato ha firmato il suo destino. Nei prossimi 15 anni l' Eni investirà 5 miliardi di dollari nello sviluppo di uno dei più grandi giacimenti di petrolio mai scoperti, Kashagan, nell' offshore kazako. Dai primi pozzi sgorgheranno 75mila barili di petrolio al giorno nel 2008, da aumentare gradatamente fino a 1,2 milioni di barili al giorno quando la produzione sarà a pieno regime. Ma il dato centrale, per Mincato, è un altro: «Anche qui siamo riusciti a ottenere la guida operativa, l' operatorship del progetto». Nel settore dell' esplorazione e dello sviluppo di idrocarburi, infatti, è prassi consolidata che la partecipazione a un progetto venga suddivisa fra più compagnie, al fine di ripartire il rischio. A Kashagan sono della partita anche Shell, Total, ExxonMobil, ConocoPhillips e la giapponese Inpex, ma sarà l' Eni a guidare il consorzio, un ruolo considerato un tempo quasi esclusivo dei big del petrolio britannici o americani. Perché essere operatori di un progetto è così importante? «Attraverso l' operatorship una compagnia ha la responsabilità dello sviluppo di un giacimento, perciò decide e sperimenta tecniche e tecnologie di gestione, programma la spesa e controlla direttamente l' evoluzione dei costi, è l' interlocutore diretto delle autorità che sovrintendono l' attività petrolifera. L' operatorship è l' elemento discriminante fra la cultura di una grande compagnia globale e quella di una piccola o media compagnia regionale. Con il lavoro svolto in questi anni, oggi oltre il 60% della produzione internazionale di petrolio e di gas dell' Eni nel mondo è operata direttamente dalla società. L' obiettivo è di superare il 70% nel 2006». Il vostro obiettivo di produzione, alla lunga, è di superare i due milioni di barili al giorno «Il target 2007 è di arrivare a 1,9 milioni di barili. Ma è evidente che continuando a questo ritmo prima o poi toccheremo i due milioni. Negli ultimi 4 anni, del resto, l' Eni è riuscita a fare metà di quanto aveva realizzato in quasi 50, partendo da una produzione di un milione di barili al giorno e superando più volte i target che ci eravamo prefissi. Perciò questa nuova sfida non mi spaventa. Naturalmente lo sforzo aumenta in maniera esponenziale: più si produce e più bisogna ricostituire le riserve. Una cosa è ripianare un "buco" da un milione e mezzo di barili al giorno, altra cosa è ripianare 3 o quattro milioni di barili come fanno le major». E' lo scotto da pagare diventando una società globale «Naturalmente ci sono anche le soddisfazioni. L' anno scorso un investitore americano mi ha chiesto ad esempio se abbiamo intenzione di andare negli Usa. Si tratta di una domanda molto significativa, vuol dire che ormai le resistenze del mercato a considerarci una grande compagnia sono state superate. Entrando in una logica da public company, l' opinione degli investitori per noi conta moltissimo ». Non è una logica che contrasta con l' azionista pubblico che avete ancora? «In realtà si tratta di un azionista con idee chiare e discreto, che ci ha sempre lasciato lavorare. Certo, prima di firmare un grosso contratto una frase al Tesoro va detta, ma non ci sono mai state interferenze nelle scelte aziendali. Del resto è la prima volta che nel Cda non c' è il consigliere di nomina del ministero dell' Economia». E il problema della contendibilità? «Non è il 20 o 30% in mano allo Stato che limita la contendibilità di un' azienda, come si vede in altri casi del settore energetico, ma sono le condizioni politiche generali. Se il capo azienda è imposto dall' alto, per gli altri consiglieri è molto più difficile mettere in discussione le sue decisioni. Ma finora non è stato così: sia io che l' amministratore delegato precedente siamo uomini Eni, arrivati al vertice dall' interno». Lei condivide con la sua squadra una carriera tutta interna al gruppo. Non c' è un problema di isolamento rispetto alle altre compagnie? «Non direi. L' Eni ha sempre avuto ambizioni internazionali. L' apertura al mondo l' abbiamo vissuta qui dentro». E con l' incorporazione in Eni delle principali società operative, che ha verticalizzato molto le funzioni, non si sente un po' un dittatore? «Dopo 47 anni di lavoro all' Eni, più della metà in posizioni di vertice, credo di non essere presuntuoso se penso di guidare l' azienda con autorevolezza più che con autorità. Il nostro è un lavoro di squadra: ogni strategia viene discussa e condivisa con i manager competenti. Certo abbiamo dovuto smontare una serie di autonomie che appesantivano i processi decisionali. Ma è stata una rivoluzione che è andata a tutto vantaggio dell' efficienza della compagnia e di cui oggi raccogliamo i frutti».
La sfida dell'Eni: rinnovare la squadra
Oltre 5,5 miliardi di euro di utili. Una produzione di un milione e mezzo di barili di petrolio al giorno. L' Eni corre per raggiungere il manipolo di testa delle Big Five, da cui ogni anno la distanza si accorcia. Correre è necessario per sopravvivere in un contesto sempre più competitivo, ma crescere a questo ritmo senza seguire la strada delle fusioni, come hanno fatto le altre compagnie petrolifere negli anni ' 90, non è facile. Per farlo serve una squadra compatta, omogenea e leale: impresa non facile in un Paese di primedonne, dove le operazioni grandi e complesse di solito finiscono male. L' Eni questa squadra ce l' ha. Ventuno top manager, accanto al presidente Roberto Poli: Vittorio Mincato (amministratore delegato), i tre direttori generali Stefano Cao, Luciano Sgubini, Gilberto Callera; i nove direttori corporate Fabrizio D' Adda, Vittorio Giacomelli, Carlo Grande, Roberto Jaquinto, Marco Mangiagalli, Leonardo Maugeri, Eugenio Palmieri, Luigi Patron e Renato Roffi; l' assistente dell' amministratore, Piergiorgio Ceccarelli; i presidenti delle società del gruppo Alberto Meomartini (Italgas), Salvatore Russo (Snam Rete Gas), Pietro Franco Tali (Saipem), Giorgio Clarizia (Polimeri Europa), Giuseppina Fusco (Sofid), Carmine Cuomo (Syndial) e Francesco Zofrea (EniTecnologie). Età media 58 anni. Non pochi, ma necessari in un business che ha bisogno di tempi lunghi. Ora la sfida è passare il testimone alla prossima generazione, ai circa 200 dirigenti che sono stati addestrati per impugnarlo. «Il punto forte della squadra sono gli obiettivi, condivisi e conosciuti». Condivisi e conosciuti sono le parole chiave di Stefano Cao, 53 anni, il più giovane dei tre direttori generali. Nato a Roma da una famiglia di origini sarde, Cao ha dal 2000 la responsabilità di esplorazione e produzione, l' attività centrale dell' Eni. Ingegnere meccanico, segue il core business del gruppo dopo 24 anni passati alla Saipem, tra buchi impossibili e piattaforme marine, fino a diventarne presidente nel ' 99. «Sono entrato in Saipem appena laureato e i primi 12 anni li ho trascorsi in mare. Ho contribuito a posare la condotta Italia-Algeria, il cordone ombelicale che ancor oggi ci collega all' Africa. Arrivato al vertice di Saipem mi hanno chiamato in Eni a dirigere esplorazione e produzione. Così ho saltato la barricata e sono passato dalla parte dei clienti». Balzo con ricadute di vasta portata: l' acquisizione delle britanniche British Borneo e Lasmo nel 2000, della finlandese Fortum Norway nel 2002 e l' attribuzione all' Eni nel 2001 della guida operativa nello sviluppo del campo kazako di Kashagan hanno inaugurato la stagione della crescita a tappe forzate che dura ancora. Le acquisizioni hanno portato nel gruppo dirigente di Eni, che conta in tutto circa 1.650 manager, 200 stranieri, fra cui Hugh O' Donnell, capo di Saipem. Esperienza sul campo e disponibilità a lavorare all' estero sono comuni a tutti i componenti della squadra di vertice. Luciano Sgubini, classe 1940, direttore generale della divisione gas ed energia, è stato per 30 anni in Agip fino al ' 98, quando ha gestito l' incorporazione della società di esplorazione e produzione nella capogruppo. «Pochissimi erano preparati a questo passaggio: abbiamo dovuto far incontrare per strada culture diverse, ma il forte senso di appartenenza al mondo Eni ci ha permesso di appianare le difficoltà», racconta. Ingegnere minerario, nato a Roma da famiglia triestina, Sgubini ha passato anni all' estero «prima in Nigeria, poi in Angola e infine in Libia, proprio nel periodo della crisi con gli americani e del bombardamento su Tripoli». Nel ' 96 è amministratore di Agip, poi affronta l' incorporazione. E visto che gli è venuta bene, chiamano di nuovo lui quando arriva il momento di incorporare Snam in Eni e separare la rete gas per quotarla in Borsa nel 2001. Da allora si occupa di gas a tempo pieno, un business in grande evoluzione viste le limitazioni sul mercato domestico, bilanciate con la crescita all' estero. Su questo fronte è stato completato il gasdotto Blue Stream, che trasporterà dalla Russia alla Turchia 16 miliardi di metri cubi di gas, e sono stati assegnati i contratti per la costruzione di Green Stream, che collegherà Sicilia e Libia. Sull' espansione all' estero è concentrato anche Gilberto Callera, «l' uomo del mercato». Nato a Bologna nel ' 39, Callera ha in mano raffinazione e marketing, attività che erano di AgipPetroli prima dell' incorporazione nel 2002. Unico dei tre direttori generali a essersi fatto le ossa fuori casa, per 10 anni in Shell, Callera è approdato all' Agip nel ' 74, arrivando ai vertici di AgipPetroli nel ' 96, per portarla infine all' incorporazione nel 2002. «Come venditori - spiega Callera - trasmettiamo ai vertici Eni la cultura del mercato, le esigenze dei clienti, di cui si devono anticipare gli orientamenti. Ci stiamo sviluppando in Spagna, Francia, Svizzera, Austria, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania, con un' espansione che si concentra attorno alle aree dove abbiamo impianti di raffinazione». Callera parla di bisogni, di nuovi prodotti come il bludiesel e si chiarisce il senso dell' integrazione verticale che in questi anni Eni ha portato a termine: eliminando i diaframmi tra le varie realtà del gruppo con l' incorporazione delle tre principali società operative, Eni ha certamente guadagnato in rapidità decisionale e uniformità di gestione. Anche la riunificazione di pianificazione e sviluppo con la direzione esteri nella direzione strategie, con a capo Leonardo Maugeri, si muove in questo senso. Oltre a elaborare il piano industriale quadriennale, si punta il cannocchiale più in là, con un masterplan sulle variabilio strategiche di lungo periodo, che per quest' anno arriva al 2015. Per il direttore finanziario Marco Mangiagalli, l' incorporazione delle varie società operative nella capogruppo è stata una benedizione, perché i mercati finanziari non amano le holding. «Dopo la privatizzazione del ' 95, ci sono voluti anni per farci conoscere dagli investitori, per spiegare che ci muoviamo con la stessa logica delle grandi compagnie petrolifere», spiega. E il mercato l' ha capito, anche se il titolo Eni viene ancora trattato a sconto per la presenza di un azionista pubblico, che ne esclude la contendibilità. I fondi internazionali - termometro della fiducia del mercato - detengono oggi il 42% del capitale di Eni, contro il 22% del 2000. Più del Tesoro.
22 febbraio 2004
La hit parade delle donne manager
American Express, Avon, Citigroup, Coca-Cola, Gannett, Gap, Hewlett-Packard, JP Morgan Chase, Kimberly-Clark, Estée Lauder, Mattel, McDonald's, Merck, Philip Morris, Reebok, Times Mirror: che cos'hanno queste multinazionali in comune fra di loro, oltre a far parte dell'indice Fortune 500? Secondo uno studio del gruppo Catalyst, rientrano nella ristretta categoria delle aziende con una presenza di donne nel top management nettamente superiore alla media. E hanno anche messo a segno una performance migliore delle loro rivali più maschiliste. Il primo studio che stabilisce un collegamento tra la presenza femminile ai vertici di un'azienda e la sua produzione di valore è stato appena pubblicato, dopo due anni di scavi in una montagna di dati e cifre, dalla più grande organizzazione dedicata alla promozione delle donne nel mondo del business, Catalyst, con sede a New York. "Per anni abbiamo sentito ripetere questa domanda senza che mai nessuno si prendesse la briga di rispondere: le aziende con più donne al comando hanno migliori risultati? Ora possiamo dire con certezza che è così, anche se non possiamo stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto tra i due dati", spiega con pacata soddisfazione Ilene Lang, presidente di Catalyst.
Dallo studio emerge infatti che le aziende con più donne in prima linea nel periodo preso in considerazione (il quinquennio '96-2000) hanno avuto un rendimento (Roe) superiore del 35,1% e un ritorno agli azionisti più alto del 34% rispetto alle loro rivali meno femministe. "L'ampiezza del divario ha sorpreso anche noi, che pure riteniamo in via di principio salutare una maggiore diversificazione di genere nella squadra di vertice di un'azienda", confessa Harvey Wagner, docente di management alla Kenan-Flagler School of Business dell'università della North Carolina, che ha guidato i lavori dei ricercatori. Il glass ceiling (soffitto di vetro) che blocca l'ascesa delle donne è generalmente considerato una sciagura dai teorici del management, convinti dei vantaggi derivanti dalla diversificazione di genere e anche di origine etnica e religiosa nei vertici aziendali. "Più la squadra dirigente è composita, migliori sono le prospettive che sia capace di mettersi in comunicazione con gruppi diversi e che il corto circuito culturale produca una strategia innovativa", spiega Wagner.
Le ragioni che possono far risultare determinante la presenza femminile nel top management sono intuitive: "Migliore capacità di rapportarsi alle esigenze delle consumatrici, il cui potere d'acquisto è in rapida ascesa. Inserimento di qualità tipicamente femminili nelle decisioni strategiche", elenca ad esempio Wagner. E anche se lo studio di Catalyst non indica delle correlazioni dirette, è ovvio che i suoi risultati daranno da pensare a più di un amministratore delegato. I ricercatori hanno preso in considerazione le 353 aziende dell'indice Fortune 500 per cui avevano a disposizione tutti i dati sulla presenza femminile nei ranghi più elevati e le hanno suddivise in quattro categorie in base al numero di manager donne presenti fra il '96 e il 2000. Poi hanno fatto i calcoli sul rendimento e sul ritorno agli azionisti nello stesso periodo e hanno incrociato i due set di dati. Il divario fra i risultati finanziari delle aziende "più femminili" rispetto a quelle "meno femminili" è lampante: colossi come Bank of America, Compaq, Disney, Exxon Mobil, Goodyear, K Mart, Nabisco, Texas Instruments, Union Carbide o Whirlpool, tutti nel gruppo di coda, in media hanno messo a segno un Roe del 13,1% e un ritorno agli azionisti del 95,3%, contro un Roe del 17,7% e un ritorno del 127,7% delle aziende che compongono il gruppo di testa. Le differenze sono particolarmente marcate nel settore dei prodotti di largo consumo, meno spettacolari ma comunque significative nel settore finanziario. "Non c'è tanto da stupirsi", commenta dall'Italia Irina Piazzoli, 38 anni, responsabile dell'ufficio legale di Philip Morris, una delle aziende considerate più attente alla promozione della presenza femminile. "Una maggiore intelligenza emotiva e una buona dose di pragmatismo danno spesso alle donne una marcia in più nelle decisioni cruciali", commenta Piazzoli, che in Philip Morris ha trovato una grande disponibilità a favorire lo sviluppo del personale e a sostenere la diversità.
Eppure, malgrado gli enormi progressi compiuti negli ultimi anni, la percentuale di donne fra i top manager resta minuscola: nell'indice Fortune 500 ci sono solo otto aziende guidate da una donna, fra cui Carly Fiorina di Hewlett Packard, Pat Russo di Lucent e Andrea Jung di Avon sono le più famose. Nonostante siano donne quasi la metà dei diplomati nelle business school americane, solo 63 dei 2500 top earner che lavorano nelle aziende di Fortune 500 sono donne (e questa percentuale è più che raddoppiata dal '95 a oggi). La situazione non è migliore nei mondi contigui al business: solo l'8% dei partner nelle Big Four della contabilità o il 14% dei partner nei primi 250 studi legali del mondo sono donne. E nelle grandi corporation sono quasi più famose le top manager che se ne sono andate di quelle che sono rimaste: Brenda Barnes, che ha piantato tutto a 43 anni alla vigilia della nomina ad amministratore delegato di PepsiCo, e Marta Cabrera, che a 44 anni ha abbandonato la vice presidenza della JP Morgan, restano delle figure leggendarie nell'immaginario delle donne americane.
15 febbraio 2004
Irene Tinagli
"Purtroppo i numeri rispecchiano abbastanza fedelmente l'immagine dell'Italia come viene percepita dagli stranieri: un Paese molto bello ma straordinariamente provinciale, tradizionalista e chiuso all'innovazione. Dove la libera concorrenza è molto limitata dai rapporti privilegiati interni alla classe dirigente, sia nel mondo del business che in quello accademico. Dove nessuno parla l'inglese e quindi è difficile comunicare. Dove perfino i film sono doppiati e dunque l'offerta culturale per uno straniero di passaggio è terribilmente limitata". Irene Tinagli, dottoranda alla Carnegie Mellon e co-autrice dell'Euro-Creativity Index insieme a Richard Florida, è un tipico cervello in fuga. Nata a Empoli 29 anni fa, sposata con un collega italiano impegnato come lei nel dottorato, si è laureata in economia aziendale alla Bocconi, dov'è rimasta poi per tre anni. Con una borsa di studio Fulbright ha preso il volo verso Pittsburgh per un master in Public Policy and Management. Ora sta per arrivare il dottorato.
Nostalgia? "Mi manca la mia famiglia, ma sul medio periodo non ho intenzione di tornare. Qui è quasi un paradiso per chi ama davvero la ricerca".
In che senso? "Prima di tutto le differenze culturali: qui i professori ti considerano un collega, ti ascoltano come un loro pari, si prendono tutto il tempo necessario per discutere le tue proposte. In Italia il dottorando è lo schiavo del professore, che spesso lo degna appena di una parola ogni sei mesi e poi magari si appropria del suo lavoro senza che nessuno batta ciglio".
Vantaggi economici? "Le tasse scolastiche sono altissime, ma l'università ti consente di gestirti in maniera molto più imprenditoriale. Se lavori per loro ti pagano separatamente dalla borsa di studio e in questo modo si riesce a cavarsela. E poi le prospettive sono molto attraenti. Sulle retribuzioni dei professori c'è una differenza abissale rispetto all'Italia. Ma non si creda che qui venga tutto facile: devi essere pronto a dare sempre il massimo, perché il sistema è sì stimolante, ma molto competitivo. La soddisfazione viene dal fatto che in linea di massima vince il migliore". Euro Creativity Index: Italia ultima in creatività Italia patria della creatività, dello stile, dell'arte, del saper vivere? "Tutti luoghi comuni. Nell'indice europeo della creatività l'Italia si colloca agli ultimissimi posti, insieme a Grecia e Portogallo. E non sembra destinata a migliorare in futuro, ma piuttosto a essere ancora scavalcata, com'è già successo con la Spagna e l'Irlanda, che in questi anni hanno corso molto più di voi". Richard Florida, professore di Sviluppo economico alla Carnegie Mellon University e autore insieme all'italiana Irene Tinagli del primo Euro-Creativity Index, non si fa impressionare dai miti del passato e guarda ai numeri. Per comporre il suo indice europeo, improntato agli stessi criteri usati nell'analogo indice americano che esiste già da molti anni, Florida prende in considerazione nove indicatori in tre grandi campi, che chiama le tre T dello sviluppo economico: tecnologia, talento e tolleranza. "L'abilità di competere e prosperare nell'economia globale - scrive Florida nel suo studio - non dipende più solo dalla vivacità degli scambi di beni e servizi o dall'afflusso di capitali e investimenti. Dipende invece dalla capacità delle nazioni di attirare, trattenere e sviluppare gente creativa". Insomma, in questa economia post-industriale dominata dalla produzione immateriale non sono più le persone che si spostano verso i posti di lavoro ma sono i posti di lavoro che corrono dietro alle persone. Laddove si sviluppa una sana interazione fra università, industria, ricerca e ambiente circostante, che dev'essere piacevole, funzionale e aperto agli stranieri e alle loro diversità culturali, arrivano prima o poi anche le persone giuste, nuova linfa imprenditoriale e quindi sviluppo economico. Il modello bostoniano con il Mit, Harvard e la sua imprenditoria sul filo del futurismo industriale fa scuola, ma il primato degli Stati Uniti stavolta sembra eclissato dal modello svedese, che nell'indice appena uscito batte per la prima volta quello americano. Seguono a ruota Finlandia, Olanda, Danimarca e Belgio, che superano o arrivano testa a testa con i pesi massimi Francia, Regno Unito e Germania. Ma quali sono i punti di debolezza del Belpaese, che ci collocano così lontani dal modello scandinavo vincente? "Uno dei problemi fondamentali del nostro sistema Paese è la mancanza di mobilità", commenta Severino Salvemini, presidente della SDA-Bocconi (la Scuola di direzione aziendale) e direttore del corso di laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione. Salvemini sta avviando insieme al sociologo Aldo Bonomi un progetto con Assolombarda mirato proprio a identificare i "luoghi di corto circuito creativo" all'interno della grande Milano, "dove abbiamo dieci univesità e duecentomila studenti universitari, una massa di potenziale creativo enorme che nessuno mette a frutto". Basandosi sugli indicatori identificati da Florida, lo studio vorrebbe capire quali sono i mezzi migliori per sostenere e governare un sistema di circolazione d'idee che potrebbe diventare l'humus di base per una nuova rinascita: "Bisogna riscoprire e sostenere quei luoghi, come il Leoncavallo, l'Isola o Corso Como, dove grazie alle attività culturali o all'happy hour s'incrociano le varie tribù professionali e studentesche, che nella vita quotidiana invece non s'incontrano mai, perché è da questa contaminazione dei generi che nascono i progetti originali", spiega Salvemini. "Il dramma dell'Italia - conclude - è che i creativi se ne stanno da una parte e le imprese dall'altra. E nessuno fa niente per incentivarli ad incontrarsi. Alla base di problemi come la carenza di investimenti in ricerca e sviluppo, la penuria di brevetti (specie nell'hi-tech) e la scarsità di ricercatori o di lavoratori creativi, cioè gli stessi problemi che ci spingono così indietro nell'indice della creatività europea, c'è proprio l'uso scorretto dei cervelli accademici, un asset straordinario che l'Italia non sfrutta". Con quest'analisi concorda Arturo Artom, presidente e amministratore delegato di Netsystem, una delle aziende italiane più all'avanguardia nel campo delle telecomunicazioni, leader europea nella diffusione di Internet a banda larga via etere. Artom, che rappresenta le piccole e medie imprese nel direttivo di Federcomin (federazione confindustriale del settore informatica, tlc e radiotv), porta l'esempio del Mit, "dove le aziende sponsorizzano progetti di contaminazione fra studenti di chimica, di medicina e d'ingegneria, chiedendo loro espressamente di produrre le follie più stravaganti, al limite della fantascienza". In un mondo dove le innovazioni sono talmente veloci da rendere obsoleto in pochi mesi qualsiasi prodotto, anticipare il futuro diventa fondamentale: "Con queste fertilizzazioni incrociate le aziende vogliono gettare uno sguardo oltre lo steccato, vedere dove andranno a parare le esigenze dei consumatori di domani. E per annusare il futuro pagano schiere di ricercatori a cui si chiede solo di sbizzarrirsi in maniera creativa". Chiaro che poi ogni invenzione viene soppesata, misurata e valutata nelle sue ricadute concrete come solo gli americani sanno fare, ma il punto di partenza resta in mano alle avanguardie dei creativi. "In Italia abbiamo migliaia di piccole imprese capaci di creare innovazione di processo e di prodotto, ma invece di farle correre a briglia sciolta attivando nuovi canali di credito e facilitando la mobilità imponiamo mille pastoie burocratiche tarpando loro le ali". Un contesto "estremamente conformista", secondo Artom, taglia le gambe alla competitività italiana: "Guardiamo agli spagnoli, come sono cresciuti. Vent'anni fa eravamo il loro mito e oggi siamo noi che arranchiamo dietro a loro". "Purtroppo questo è un problema che l'Italia non vuole affrontare", conclude amaramente Renato Ugo, ordinario di chimica alla Statale di Milano e presidente dell'Airi (Associazione italiana ricerca industriale). "Crediamo di potercela cavare sfruttando lo stile innato che abbiamo iscritto nel nostro Dna, senza renderci conto che non porta valore aggiunto perché non ha barriere d'ingresso. Basta copiarlo e in breve s'impara a riprodurlo perfettamente, come i cinesi fanno ormai da anni con grande successo", ragiona il professore. "Anche dalle recenti leggi varate dal Parlamento risulta evidente che gli italiani continuano ad opporsi allo sviluppo scientifico e preferiscono concentrare tutti i propri sforzi sullo styling o il marketing, di cui il made in Italy è maestro. Ma limitarsi a migliorare o adattare tecnologie già note non è più un fattore di crescita. Solo la ricerca seria, quella che inventa davvero (tipica della grande industria che non abbiamo più), potrà tenere a galla le economie occidentali di fronte all'onda di piena dei Paesi in via di sviluppo". "Malgrado la loro potente efficienza manifatturiera - sostiene Florida - non saranno l'India o la Cina i leader economici del futuro. Saranno le nazioni e le regioni del mondo più brave nel mobilitare il talento creativo della propria gente e nell'attirarlo dall'estero". Ma ci sarà ancora l'Italia fra questi leader?
Euro Creativity Index: Italia ultima in creatività
Italia patria della creatività, dello stile, dell'arte, del saper vivere? "Tutti luoghi comuni. Nell'indice europeo della creatività l'Italia si colloca agli ultimissimi posti, insieme a Grecia e Portogallo. E non sembra destinata a migliorare in futuro, ma piuttosto a essere ancora scavalcata, com'è già successo con la Spagna e l'Irlanda, che in questi anni hanno corso molto più di voi". Richard Florida, professore di Sviluppo economico alla Carnegie Mellon University e autore insieme all'italiana Irene Tinagli del primo Euro-Creativity Index, non si fa impressionare dai miti del passato e guarda ai numeri. Per comporre il suo indice europeo, improntato agli stessi criteri usati nell'analogo indice americano che esiste già da molti anni, Florida prende in considerazione nove indicatori in tre grandi campi, che chiama le tre T dello sviluppo economico: tecnologia, talento e tolleranza. "L'abilità di competere e prosperare nell'economia globale - scrive Florida nel suo studio - non dipende più solo dalla vivacità degli scambi di beni e servizi o dall'afflusso di capitali e investimenti. Dipende invece dalla capacità delle nazioni di attirare, trattenere e sviluppare gente creativa". Insomma, in questa economia post-industriale dominata dalla produzione immateriale non sono più le persone che si spostano verso i posti di lavoro ma sono i posti di lavoro che corrono dietro alle persone. Laddove si sviluppa una sana interazione fra università, industria, ricerca e ambiente circostante, che dev'essere piacevole, funzionale e aperto agli stranieri e alle loro diversità culturali, arrivano prima o poi anche le persone giuste, nuova linfa imprenditoriale e quindi sviluppo economico. Il modello bostoniano con il Mit, Harvard e la sua imprenditoria sul filo del futurismo industriale fa scuola, ma il primato degli Stati Uniti stavolta sembra eclissato dal modello svedese, che nell'indice appena uscito batte per la prima volta quello americano. Seguono a ruota Finlandia, Olanda, Danimarca e Belgio, che superano o arrivano testa a testa con i pesi massimi Francia, Regno Unito e Germania.
Ma quali sono i punti di debolezza del Belpaese, che ci collocano così lontani dal modello scandinavo vincente? "Uno dei problemi fondamentali del nostro sistema Paese è la mancanza di mobilità", commenta Severino Salvemini, presidente della SDA-Bocconi (la Scuola di direzione aziendale) e direttore del corso di laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione. Salvemini sta avviando insieme al sociologo Aldo Bonomi un progetto con Assolombarda mirato proprio a identificare i "luoghi di corto circuito creativo" all'interno della grande Milano, "dove abbiamo dieci univesità e duecentomila studenti universitari, una massa di potenziale creativo enorme che nessuno mette a frutto". Basandosi sugli indicatori identificati da Florida, lo studio vorrebbe capire quali sono i mezzi migliori per sostenere e governare un sistema di circolazione d'idee che potrebbe diventare l'humus di base per una nuova rinascita: "Bisogna riscoprire e sostenere quei luoghi, come il Leoncavallo, l'Isola o Corso Como, dove grazie alle attività culturali o all'happy hour s'incrociano le varie tribù professionali e studentesche, che nella vita quotidiana invece non s'incontrano mai, perché è da questa contaminazione dei generi che nascono i progetti originali", spiega Salvemini. "Il dramma dell'Italia - conclude - è che i creativi se ne stanno da una parte e le imprese dall'altra. E nessuno fa niente per incentivarli ad incontrarsi. Alla base di problemi come la carenza di investimenti in ricerca e sviluppo, la penuria di brevetti (specie nell'hi-tech) e la scarsità di ricercatori o di lavoratori creativi, cioè gli stessi problemi che ci spingono così indietro nell'indice della creatività europea, c'è proprio l'uso scorretto dei cervelli accademici, un asset straordinario che l'Italia non sfrutta".
Con quest'analisi concorda Arturo Artom, presidente e amministratore delegato di Netsystem, una delle aziende italiane più all'avanguardia nel campo delle telecomunicazioni, leader europea nella diffusione di Internet a banda larga via etere. Artom, che rappresenta le piccole e medie imprese nel direttivo di Federcomin (federazione confindustriale del settore informatica, tlc e radiotv), porta l'esempio del Mit, "dove le aziende sponsorizzano progetti di contaminazione fra studenti di chimica, di medicina e d'ingegneria, chiedendo loro espressamente di produrre le follie più stravaganti, al limite della fantascienza". In un mondo dove le innovazioni sono talmente veloci da rendere obsoleto in pochi mesi qualsiasi prodotto, anticipare il futuro diventa fondamentale: "Con queste fertilizzazioni incrociate le aziende vogliono gettare uno sguardo oltre lo steccato, vedere dove andranno a parare le esigenze dei consumatori di domani. E per annusare il futuro pagano schiere di ricercatori a cui si chiede solo di sbizzarrirsi in maniera creativa". Chiaro che poi ogni invenzione viene soppesata, misurata e valutata nelle sue ricadute concrete come solo gli americani sanno fare, ma il punto di partenza resta in mano alle avanguardie dei creativi. "In Italia abbiamo migliaia di piccole imprese capaci di creare innovazione di processo e di prodotto, ma invece di farle correre a briglia sciolta attivando nuovi canali di credito e facilitando la mobilità imponiamo mille pastoie burocratiche tarpando loro le ali". Un contesto "estremamente conformista", secondo Artom, taglia le gambe alla competitività italiana: "Guardiamo agli spagnoli, come sono cresciuti. Vent'anni fa eravamo il loro mito e oggi siamo noi che arranchiamo dietro a loro".
"Purtroppo questo è un problema che l'Italia non vuole affrontare", conclude amaramente Renato Ugo, ordinario di chimica alla Statale di Milano e presidente dell'Airi (Associazione italiana ricerca industriale). "Crediamo di potercela cavare sfruttando lo stile innato che abbiamo iscritto nel nostro Dna, senza renderci conto che non porta valore aggiunto perché non ha barriere d'ingresso. Basta copiarlo e in breve s'impara a riprodurlo perfettamente, come i cinesi fanno ormai da anni con grande successo", ragiona il professore. "Anche dalle recenti leggi varate dal Parlamento risulta evidente che gli italiani continuano ad opporsi allo sviluppo scientifico e preferiscono concentrare tutti i propri sforzi sullo styling o il marketing, di cui il made in Italy è maestro. Ma limitarsi a migliorare o adattare tecnologie già note non è più un fattore di crescita. Solo la ricerca seria, quella che inventa davvero (tipica della grande industria che non abbiamo più), potrà tenere a galla le economie occidentali di fronte all'onda di piena dei Paesi in via di sviluppo".
"Malgrado la loro potente efficienza manifatturiera - sostiene Florida - non saranno l'India o la Cina i leader economici del futuro. Saranno le nazioni e le regioni del mondo più brave nel mobilitare il talento creativo della propria gente e nell'attirarlo dall'estero". Ma ci sarà ancora l'Italia fra questi leader?
12 febbraio 2004
Un oligopolio europeo dell'energia
In Europa sta nascendo un oligopolio dell’energia. «Se le utility italiane non daranno un colpo di acceleratore ai processi di aggregazione, finiranno per diventare facile terra di conquista per i colossi esteri». Andrea Gilardoni, direttore del master in gestione delle utility alla Bocconi e curatore di un Osservatorio sulle alleanze e acquisizioni delle utility locali italiane, sull’acceleratore ha messo tutto il suo peso: il progetto di aggregazione delle municipalizzate lombarde che il professore ha consegnato al governatore Roberto Formigoni non è ancora un fatto compiuto, ma sta dando molto da pensare nella regione più energivora d’Italia.
Lombard Utilities — secondo il piano delineato da Gilardoni insieme allo studio Sciumé Zaccheo e alla Bp Consulting su incarico dell’istituto di ricerca regionale Irer — potrebbe raggiungere una capitalizzazione di Borsa di 8,5 miliardi, unendo venti municipalizzate di natura diversa ma compatibile con una struttura federale simile a quella di Hera, la multiutility bolognese nata dall’aggregazione di 11 municipalizzate da Bologna fino al mare. Ancora niente a che fare con i colossi che si sono formati negli scorsi anni nei mercati liberalizzati prima del nostro, come Rwe in Germania o Vattenfall in Scandinavia, ma pur sempre un peso notevole in un panorama ancora estremamente frammentato. Con un patrimonio netto di 3,6 miliardi e un volume d’affari di 3,8 miliardi, Lombard Utilities potrebbe dare filo da torcere a Enel e in Borsa peserebbe da sola più di tutte le altre municipalizzate messe assieme. Naturalmente al momento attuale il condizionale è d'obbligo, ma come dice Gilardoni «tutte le grandi imprese sono nate da un sogno». Un sogno che a livello nazionale è molto sostenuto: "Il movimento di aggregazione delle multiutility è un passo decisivo per lo sviluppo industriale italiano e il governo segue da vicino sia il progetto lombardo che quello in corso nel Nord Est", sostiene Adolfo Urso, sottosegretario alle Attività produttive. "Le occasioni per le nostre ex-municipalizzate di competere con i concorrenti europei nell'Europa orientale, nei Balcani e anche nel bacino del Mediterraneo non mancherebbero, se avessero già raggiunto la massa critica sufficiente per andare all'estero. Rinchiudersi nel mercato italiano non può garantire la sopravvivenza".
"Sulla strada delle aggregazioni, che Aem pone da anni al centro delle proprie strategie, ci si scontra sempre prima o poi con il campanilismo dei politici", mette in chiaro però Giuliano Zuccoli, presidente di Aem Milano. "Certo è che crescere per linee di sviluppo interne ormai non può bastare per reggere la concorrenza con il mercato europeo, quindi va trovata al più presto una formula di aggregazione che metta d'accordo tutti. Il Gruppo Linea lungo la direttrice Cremona, Lodi, Mantova, Pavia è una buona cosa. Ma ci vuole un'aggregazione più vasta. Se sarà quella delineata nel progetto di Gilardoni, l'Aem non si tirerà certo indietro: abbiamo le competenze e abbiamo i numeri. Perché non provare?" Sul fronte della politica la risposta è Infrastrutture Lombarde, la nuova società regionale destinata a favorire lo start up di progetti infrastrutturali su tutte le reti, da quella idrica a quella elettrica a quella ferroviaria. Raffaele Cattaneo, presidente del consiglio di sorveglianza della società e vice segretario generale della giunta, è convinto della necessità di un disegno industriale complessivo per le multiutility lombarde: "Chi saprà trovare il giusto mix fra le ragioni industriali dell'aggregazione e le necessità politiche di proteggere le specificità locali avrà vinto questa partita", commenta Cattaneo. "L'avversario che va sconfitto - precisa Cattaneo - è il campanilismo, ma non bisogna dimenticare che i servizi di pubblica utilità sono molto radicati sul territorio e toccano corde delicate". Anche il presidente di Asm Brescia, Renzo Capra, vede nel progetto di Gilardoni notevoli difficoltà da superare: «Le nostre sono organizzazioni nate da storie diverse, con caratteristiche specifiche che vanno rispettate. Basta guardare in che condizioni si trovano oggi le banche dopo le fusioni. Sono ancora lì a leccarsi le ferite». Del resto le aggregazioni sono la conseguenza di un cambiamento che non si può evitare. E Capra invita le piccole municipalizzate a non aspettare l’ultimo momento per scegliere questa strada, «perché è meglio trattare da una posizione di forza che tendere la mano quando non si hanno altre vie d'uscita». Il progetto, del resto, parte dalla constatazione che anche in Italia qualcosa sta cominciando a muoversi. Dopo la nascita di Hera il processo di concentrazione in Emilia Romagna ha continuato a espandersi, da un lato con l’aggregazione dell’Agea di Ferrara al primo nucleo bolognese, dall’altro lato con l’alleanza delle municipalizzate di Reggio Emilia (Agac), Parma (Amps) e Piacenza (Tesa), sotto il cappello di Meta Modena. Se il progetto andrà in porto (e, malgrado le frizioni sulla spartizione delle cariche, ci sono buone probabilità che ce la faccia entro la scadenza di aprile), il nuovo blocco avrà un fatturato di 900 milioni di euro, che lo colloca direttamente alle spalle della stessa Hera, di Aem Milano e Acea. Sul fronte Nord-Est, secondo le ultime voci Aem Milano starebbe trattando per l’acquisizione di un 20% di Acegas-Aps, mentre sta cominciando a prendere forma Nes (Nordest Servizi), la maxi-utility concepita dal sindaco di Venezia Paolo Costa e dal presidente di Iris Gorizia Gianfranco Gutty, che comprende 12 municipalizzate del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. «Sarà sempre meglio condividere le proprie specificità con il campanile vicino che essere inghiottiti da un colosso francese, tedesco o scandinavo, con il pericolo di finire stritolati in un periodo di crisi com’è successo alle acciaierie di Terni», insiste Gilardoni, che presenterà la settimana prossima i risultati del suo Osservatorio sulle alleanze a un convegno a porte chiuse da dove spera di veder uscire un impulso nuovo verso il consolidamento: «L’importante è fare massa critica e aumentare l’efficienza, tagliando i costi grazie alle sinergie, in modo da diventare competitivi anche a livello europeo, perché pensare al mercato italiano come se fosse isolato dal resto è un grande errore».
9 febbraio 2004
Luigi Zingales
“Più poteri alla Consob? Ottima idea. Ma attenzione a non appesantire ulteriormente le regole, che poi finiranno per essere disattese. Il grave problema dell’Italia non è la mancanza di regole, ma piuttosto il fatto che nessuno le rispetti. Laddove ci sono troppe leggi è automatico che vengano disapplicate”. Luigi Zingales, professore di Finanza all’università di Chicago e autore di un best seller del dopo-Enron, “Saving Capitalism from the Capitalists”, preferisce andare sul concreto in materia di frodi societarie. E diffida delle riforme varate sull’onda degli scandali.
Allora non ha apprezzato nemmeno la Sarbanes-Oxley? “Si tratta senz’altro di un passo avanti, seppure con alcune controindicazioni. Le misure più importanti introdotte dalla Sarbanes-Oxley, secondo me, sono le norme sui criteri di nomina dei revisori, che non rispondono più all’amministratore delegato ma a un comitato di controllo interno (audit committee) formato da direttori indipendenti, come deterrenza allo strapotere dei manager e ai comportamenti fraudolenti dei revisori. In Italia, invece, finora sono mancate alla Consob le risorse necessarie per l'assolvimento della funzione di controllo sulla qualità della revisione”.
Altre norme a cui varrebbe la pena di ispirarsi? “Nella Sarbanes-Oxley si affronta per la prima volta il problema del controllo interno, cioè la vigilanza che può essere esercitata in prima persona dai dipendenti chiave, gli unici con una conoscenza di prima mano dei conti dell’azienda. Anche in Italia bisognerebbe rendersi conto che nel mondo della finanza, basato in gran parte sulla fiducia, i controlli esterni lasciano il tempo che trovano. Negli Stati Uniti la Sec ha molti più poteri della Consob, sia d’indagine che sanzionatori, eppure non è riuscita a evitare frodi gigantesche. Sono quindi i controlli interni quelli che contano di più”.
Ma indurre un dipendente a “tradire” la società in cui lavora non è facile… “Appunto: la legge dovrebbe stare lì apposta per proteggerli. I problemi dei whistle blowers, cioè di chi si rivolge alle autorità di controllo segnalando abusi o irregolarità, sono tali e tanti da impedire questo tipo di controllo in condizioni normali. Il dipendente che denuncia l’azienda non ha certo vita facile in ufficio e il più delle volte viene licenziato non appena si scopre la sua ‘infedeltà’. Spesso incorre anche in grane giudiziarie per aver fatto uscire informazioni riservate. E ha molte difficoltà a ritrovare lavoro: chi si sente di assumere uno “spione”? Basta vedere cos’è successo alla famosa Sherron Watkins, che ha denunciato per prima lo scandalo Enron: ha avuto un grande successo sui media ma si è giocata la carriera”.
Quali potrebbero essere le misure per aiutarli? “Prima di tutto vanno depenalizzate questo tipo di infrazioni alla privacy, consentendo loro di far uscire delle informazioni riservate senza incorrere in sanzioni legali. A patto naturalmente che i denuncianti si rivolgano alle autorità di controllo, non ai giornali. Poi bisogna garantire il reintegro nel loro posto di lavoro, com’è successo nei giorni scorsi a un direttore finanziario, reintegrato dopo essere stato licenziato nell’ottobre 2002 per aver denunciato un caso di insider trading. Era la prima volta che un giudice usava questa nuova norma. Infine stabilendo una ricompensa a chiunque permetta di far emergere una frode finanziaria, con un compenso proporzionato alla sua entità: se l’onestà non paga bisogna aumentarne il rendimento per legge”.
E secondo lei dei provvedimenti come questi avrebbero potuto impedire il caso Parmalat? “Certamente. Se ai dipendenti Parmalat si fosse prospettata una ricompensa, diciamo del 10% della dimensione della truffa, è probabile che avrebbero parlato prima. Non credo che i bilanci sarebbero stati contraffatti per ben quindici anni”.
Apparentemente un’idea molto semplice. Possibile che nessuno ci abbia pensato prima? “In un Paese come l’Italia, dove nessuno è in regola e quindi tutti sono legati all’omertà degli altri, uno strumento efficace come questo fa senz’altro paura. Ma potrebbe essere un buon sistema per smuovere le acque. In fondo abbiamo compensato con la libertà anche degli assassini pur di stroncare il terrorismo, perché non si potrebbe tentare questa strada per stroncare le frodi societarie?”
8 febbraio 2004
La caduta degli amministratori delegati
Martha Stewart Living, la società che insegna alle casalinghe americane come arredare e decorare la casa, è la vittima più recente. Con la sua fondatrice messa alla gogna proprio in questi giorni a New York, in uno dei processi più spettacolari degli ultimi anni, l'impero mediatico nato dal nulla nel '91 ha perso circa metà del suo valore rispetto alla quotazione di partenza e l'azienda è finita in rosso. Martha Stewart, naturalmente, ha ceduto il timone ai suoi collaboratori. Ma non è chiaro se un'azienda così strettamente legata alla personalità del suo amministratore delegato sarà in grado di rimettersi dopo l'accusa infamante di insider trading che l'ha disarcionata.
Nell'ondata di scandali societari seguiti allo scoppio della bolla borsistica e all'"esuberanza irrazionale" degli ultimi anni Novanta, Martha Stewart Living non è stata certamente l'unica società, né la più importante, a soffrire del crollo dei suoi vertici e delle loro strategie spericolate. Dopo i disastri di Enron, GlobalCrossing, WorldCom o Tyco nella prima fase, oggi è il turno di HealthSouth, Hollinger, Parmalat, Ahold, Skandia. Per non parlare delle banche o delle società di revisione contabile, devastate dalla bufera che ha travolto i loro capi. E non sono solo le frodi ad aver messo schiere di amministratori delegati fuori combattimento: da Aol a Bertelsmann, spesso le strategie troppo ardite che sono costate la testa a più d'un capo azienda vengono oggi disfatte in fretta e furia dai suoi successori. Un bilancio completo della distruzione di valore avvenuta in questi anni non è ancora stato stilato, ma resta la curiosità di andare a vedere i danni causati nelle singole aziende. Citizen Works, un'organizzazione americana impegnata nella difesa dei consumatori, si è presa la briga di esaminare i casi più eclatanti.
Andersen è l'unico caso di estinzione completa fra i marchi colpiti dalla pubblica infamia. L'amministratore delegato dello scandalo, Joseph Berardino, si è dimesso nel marzo 2002 dietro sollecitazione di un comitato di saggi guidato da Paul Volcker, chiamato a salvare l'azienda. Ma non è servito a nulla: con la condanna della sua controllata americana Arthur Andersen, in primissima linea nell'affare Enron, il colosso delle revisioni contabili (con un giro d'affari da quasi 10 miliardi di dollari) si è trovato abbandonato nel giro di poche settimane da tutti i suoi clienti e costretto a chiudere in breve tempo l'intero network di 390 uffici in 85 Paesi del mondo.
La fusione fra Time Warner e Aol, nel 2001, è stata il canto del cigno della rivoluzione digitale che ha sostenuto la straordinaria crescita economica americana negli anni Novanta. Oggi, tutti i manager che hanno contribuito al matrimonio fra il numero uno mondiale dei media e il numero uno di Internet hanno perso il posto: il presidente Steve Case (fondatore di Aol) si è dimesso l'anno scorso, poco dopo l'abbandono di Ted Turner (fondatore della Cnn), e l'amministratore delegato Jerry Levin (ex-capo di Time Warner) aveva lasciato la nave già nel 2002, non appena il fallimento della storica operazione era diventato evidente. Nel 2002, Aol TimeWarner ha messo a segno un gigantesco buco da 98,7 miliardi di dollari, la più spettacolare perdita della storia americana. E sui risultati dell'anno precedente pesa un'indagine della Sec, che li ha scoperti gonfiati per abbellire i connotati della maxi-fusione. Nel 2003, la due società sono state separate (anche nel nome) e Aol, che era entrata nelle nozze da padrona, è diventata una controllata di Time Warner. Nello stesso anno il primo Internet provider del mondo ha perso oltre due milioni di abbonati, attratti dai rivali più economici. Ma anche le divisioni "old economy" del gigante dei media non se la passano benissimo: il nuovo presidente e amministratore delegato, Dick Parsons, ha definito il 2003 un "anno di riassetto", dedicato più alla riduzione dei debiti che alla crescita. La sua ultima mossa, infatti, è stata la vendita di Warner Music a Edgar Bronfman, ex capo della Seagram, che sarà perfezionata nei prossimi giorni.
Lo scandalo Ahold ha spazzato via nel giro di poche settimane il 63% del valore di Borsa del colosso olandese della grande distribuzione, che oggi capitalizza poco più di tre miliardi di dollari. In seguito alle irregolarità nei conti della sua affiliata americana, l'amministratore delegato Cees van der Hoeven e il direttore finanziario Michiel Meurs si sono dimessi l'anno scorso, seguiti poche settimane fa dal presidente Henny de Ruiter. Nel 2002 Ahold ha messo a segno la prima perdita della sua storia ultracentenaria: un buco da 1,27 miliardi di dollari.
Gli altri casi europei più eclatanti di amministratori delegati caduti in disgrazia sono quelli di Vivendi Universal e di Bertelsmann, dove all'origine della caduta non ci sono state frodi, ma banali manie di grandezza su cui gli azionisti hanno preferito tirare il freno. Anche qui, i successori si sono affrettati a disfare ciò che i due visionari Jean-Marie Messier e Thomas Middelhoff avevano costruito durante il loro mandato, accumulando montagne di debiti. In Bertelsmann, Gunter Thielen ha ceduto tutte le quote comprate dal suo predecessore Middelhoff in diverse Internet companies e rallentato i piani di quotazione in Borsa. In Vivendi, dopo la cacciata di Messier nel 2002 il suo successore Jean-René Fourtou ha venduto Vivendi Universal Publishing a Lagardère e sta cedendo gli studios Universal al network televisivo di General Electric, Nbc. Malgrado ciò, nel 2002 la società è andata in rosso di 25 miliardi di dollari, un passivo senza precedenti in tutta la storia francese.
4 febbraio 2004
Not in my backyard
A Sparanise nel Casertano in testa al corteo ha marciato anche il vescovo Francesco Tommasiello. In Basilicata, non paghe del blocco antinucleare di Scanzano, destra e sinistra unite hanno promesso opposizione durissima. A Termoli, sulla costa adriatica molisana, la protesta coinvolge una miriade di associazioni e tutte le forze politiche di opposizione. A Scandiano nel Reggiano la Lega Nord sta dando battaglia. A Voghera si rincorrono le sospensive del Tar. Costruire centrali elettriche o elettrodotti, malgrado il decreto Marzano, non è facile di questi tempi. E anche davanti ai terminal gas, che potrebbero liberare l'Italia dai metanodotti, non si stendono tappeti rossi. Ottenere dagli enti locali tutte le carte bollate necessarie per far partire i cantieri dura spesso anni. E talvolta non ci si riesce proprio.
Le centrali che hanno ottenuto tutte le autorizzazioni dai diversi ministeri sono ben 26, per oltre 12.600 megawatt complessivi, tra cui anche l'impianto a ciclo combinato da 800 Mw progettato a Sparanise dalla svizzera Egl insieme alla multiutility emiliana Hera, la centrale a turbogas prevista a Termoli da Energia e quella da 400 Mw di Electrabel con Asm a Voghera. Ma solo in otto siti, per poco più di quattromila megawatt complessivi, si sta effettivamente lavorando. E a fronte dei primi collegamenti avviati dalla centrale mantovana di Sermide (Edipower), da quella di Ponti sul Mincio dell'Asm Brescia e da quella di Ferrera Erbognone in provincia di Pavia (Enipower), c'è una lunga lista di incompiute - o meglio mai cominciate - che non accennano a sbloccarsi. Tre sono, ad esempio, le centrali a turbogas che hanno ricevuto parere negativo da parte di altrettante Regioni. Ha negato il suo assenso il Piemonte per la centrale di Leinì, l'Umbria per un impianto che dovrebbe essere ubicato a Narni e il Molise per la centrale progettata a Venafro. Ma ci sono anche casi più complessi, dove i dinieghi si sommano e a volte si incrociano con i permessi. Qualche esempio? In Liguria contro l'impianto di Cairo Montenotte si sono messe Regione, Provincia e ministero dei Beni culturali a cui si oppongono i pareri favorevoli del Comune e dei ministeri di Salute e Infrastrutture. A Bari la proposta per un impianto è passata indenne attraverso l'esame di tre ministeri (Infrastrutture, Salute e Beni culturali), ma si è poi trovata la strada sbarrata per la posizione interlocutoria del Comune. Anche la centrale Enel di Porto Tolle, quella che produce il 5% della potenza di generazione effettiva del Paese, è caduta vittima di un veto: il progetto di riconversione da olio combustibile a un'emulsione di acqua e bitume naturale è fermo per la mancanza delle autorizzazioni regionali. Analoga sorte per l'impianto di Modugno, in Puglia, e per la centrale di Civitavecchia. Qui la riconversione da olio combustibile a carbone ha trovato l'ostacolo di Comune e Regione che hanno alla fine dato il loro consenso, ma solo per una parziale attuazione dei lavori previsti.
E poi ci sono gli elettrodotti, come quello di Scandiano (Reggio Emilia) che passerebbe troppo vicino alle case o quello tra Matera e Santa Sofia bloccato dalla Corte d'appello di Potenza. Anche i terminal gas progettati al largo del Delta del Po, nel distretto petrolchimico di Rosignano (Livorno), a Brindisi e in Calabria sono vittime delle resistenze locali, malgrado le autorizzazioni a livello centrale siano già state ottenute da anni. Perfino le centrali eoliche sono fieramente osteggiate, tanto che nel 2003 in Italia sono stati aggiunti solo 20 megawatt di wind farm alla capacità esistente. Secondo i dati della Legambiente, l'Italia non supera così gli 800 megawatt complessivi generati con l'energia eolica (i tedeschi ne hanno 19mila).
Eppure negli ultimi dieci anni i consumi energetici degli italiani sono aumentati del 15% (contro il 12% in Europa). Di conseguenza diverse regioni, come la Campania o il Veneto, soffrono di un deficit energetico che rischia di rallentare le loro attività industriali. E da parte delle autorità centrali si sta facendo il possibile per sveltire le procedure. Il documento tariffario appena varato dall'Autorità per l'energia, ad esempio, facilita la connessione dei nuovi impianti, incentivando gli investimenti Enel sugli allacciamenti della rete nazionale alle centrali. Mentre il disegno di legge firmato dal ministro Antonio Marzano, che attende ancora l'esame del Senato, contiene un regime di compensazioni da riconoscere alle amministrazioni disposte a ospitare le nuove centrali elettriche, che potrebbe far cambiare atteggiamento agli enti locali coinvolti. E' proprio su questo punto, oltre che sulla riunificazione della proprietà della rete elettrica in capo al suo Gestore, che la riforma Marzano si è arenata davanti a una raffica di emendamenti. Ma l'efficacia degli incentivi varati sarà essenziale per dare certezze alle aziende e alle banche che devono finanziare gli investimenti.
2 febbraio 2004
Strana liberalizzazione, fa salire i prezzi
Energia: concorrenza cercasi. A tre anni dall' avvio della liberalizzazione, i prezzi salgono invece di scendere, sia sul mercato vincolato che sul mercato libero, e non è prevedibile un' inversione di tendenza in tempi brevi. Anzi. C' è chi ipotizza aumenti ulteriori, anche del 20%. Il nuovo documento dell' Autorità sulle tariffe 2004-2007, che ha rimesso di buon umore il ministero dell' Economia di Giulio Tremonti, azionista di maggioranza dell' Enel, sta facendo invece preoccupare gli altri operatori. Al più grande gruppo elettrico italiano, che ha archiviato il 2003 con un balzo del 27 per cento del margine operativo lordo, la nuova Autorità di Alessandro Ortis ha regalato un tasso di rendimento del capitale tra il 6,8 e il 6,9 per cento sull' attività di distribuzione e tra il 6,7 e il 6,8 per cento sull' attività di trasmissione (il documento varato dalla gestione precedente, sotto Pippo Ranci, prevedeva un rendimento del 6,4% per la distribuzione e del 6,2% per la trasmissione). Le nuove direttive che stanno entrando in vigore in questi giorni conferiscono dunque a Terna, la società di trasmissione controllata al cento per cento dall' Enel e prossima alla quotazione, un valore di 5 miliardi, contro i 3,5 miliardi dell' ipotesi precedente. Gli analisti finanziari sono entusiasti della prospettiva. I concorrenti di Enel un po' meno. «Se i margini si concentrano tutti sul settore vincolato, a cui soltanto l' Enel ha accesso, la redditività del mercato libero automaticamente si riduce - spiega Mario Molinari, direttore generale di Energia -. Ormai gli sconti ai clienti liberalizzati si giocano su pochi spiccioli e offrire un prodotto concorrenziale senza rischiare l' osso del collo è sempre più difficile». Sul filo del rasoio Mentre il mercato vincolato si gode i fasti delle nuove tariffe, sul fronte del mercato libero si corre sul filo del rasoio. Da un lato la domanda cresce molto più dell' offerta, sia perché il consumo annuo pro-capite d' energia degli italiani è il più basso d' Europa (5.100 kWh contro una media europea di 6.600 kWh) e quindi tende ad aumentare rapidamente per colmare il divario, sia perché la costruzione di nuove centrali continua ad andare a rilento. Dall' altro lato il luogo deputato a far incontrare domanda e offerta in maniera trasparente, cioè la Borsa elettrica, considerata dagli operatori l' unico argine possibile alla lievitazione dei prezzi, continua a collezionare ritardi e rinvia di giorno in giorno il brindisi d' apertura: doveva essere operativa da oggi, ma per adesso l' unica certezza è un nuovo slittamento. «Questo modo di procedere ondivago, in cui manca ogni prospettiva certa e si cambiano continuamente le regole, rappresenta un enorme disincentivo per gli operatori privati a competere con l' Enel sul nuovo fronte dei piccoli e medi consumatori che si sta aprendo. Di conseguenza è probabile che questi nuovi clienti liberalizzati rimangano dove stavano prima e che il mercato italiano dell' energia finisca per assomigliare a quello del gas, dove la liberalizzazione in teoria è ormai completa da oltre un anno, ma in realtà non è mai partita», commenta Molinari. Attività libera «La vendita dell' energia in Italia è un' attività libera, ma allo stesso tempo è un' attività per cui sono previsti margini di remunerazione assolutamente insostenibili», spiega Antonio Urbano di Dynameeting, operatore specializzato nell' intermediazione. «I soli costi variabili di gestione del cliente, cioè i costi amministrativi, fiscali, di fatturazione e incasso, sono di gran lunga superiori al margine di guadagno contendibile stabilito dal regolatore. Per non parlare dei costi promozionali-commerciali, del rischio di credito e della remunerazione del capitale investito», conclude Urbano. Con l' arrivo dei piccoli consumatori, il mercato liberalizzato si allargherà a circa sette milioni di utenti. Per affrontare un mercato di massa di questo tipo ci vogliono offerte standard su tutto il territorio nazionale, mentre in Italia ogni distributore può fare i prezzi che vuole e cambiarli a suo piacimento: come si fa a impostare un' attività di marketing senza sapere con certezza quale sarà il «pedaggio» da pagare ai distributori per accedere alle loro reti? Non a caso gli sconti medi che si sentono fra gli operatori ormai non superano il 3-4 per cento di ribasso rispetto alla tariffa fissata dall' Autorità, mentre un paio di anni fa sfioravano il 10 per cento. E fra i consumatori, soprattutto le piccole e medie imprese, serpeggia la preoccupazione sull' aggravio della fattura energetica che comporterà questa situazione. Gli industriali della provincia di Treviso, ad esempio, prendono in considerazione i vantaggi dell' autogenerazione e mettono in guardia i loro associati perché si attrezzino in tempo contro il caro-bollette. E Confartigianato conferma: «Il trend purtroppo fa pensare che quest' anno si ridurrà ancora di più il vantaggio di passare al mercato libero». Insomma, nessuno si fa illusioni sulle prospettive luminose di un mercato che per ora lascia tutti, tranne Enel, a bocca asciutta.
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