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10 maggio 2004

Pier Luigi Celli

Anima, identità, esperienza, narrazione. Le parole chiave che usa Pier Luigi Celli nel suo ultimo libro sarebbero adatte a descrivere un organismo vivente più che un' azienda. Celli, responsabile dell' identità aziendale del gruppo Unicredit, è stato direttore generale della Rai e ha costruito la squadra di alcuni grandi gruppi italiani, uno per tutti Omnitel. E questo bagaglio si vede: in Impresa e classi dirigenti (editore Baldini Castoldi Dalai, pagg. 144, 13 euro), sembra quasi di sentir parlare John Browne, l' amministratore delegato di Bp e il pioniere della cosiddetta adaptive enterprise. Immaginare l' interazione dei dipendenti di un' azienda come un complesso gioco di cellule all' interno di un organismo, del resto, è una metafora molto attraente, tipica delle teorie manageriali postfordiste, che hanno mandato in soffitta la concezione piramidale dell' impresa come macchina manovrata dall' amministratore delegato per utilizzare l' esasperata connettività introdotta con lo sviluppo di Internet: reti piatte ed estese i cui nodi sono perennemente in collegamento, anche quando si trovano a migliaia di chilometri di distanza. Ma non è da tutti il dono di saper insufflare la vita nella propria azienda, rendendola capace di trasformarsi con abilità camaleontica a seconda delle esigenze del mercato, pur senza smarrire la propria identità. Celli mette in luce questi limiti. Limiti ormai endemici nella grande industria italiana, che perde un pezzo dopo l' altro senza apparenti prospettive di resurrezione. Limiti imputati principalmente a una classe dirigente «egoista e senza anima, abile a semplificare e a controllare». Troppo poco in un mondo globalizzato in cui lo spessore degli individui si misura ormai su un' arena sempre più vasta e dove le competenze tecniche non bastano a dominare il presente e a scrutare il futuro. Alla tavola imbandita da Celli siede chiaramente un convitato di pietra, anche se non viene mai chiamato per nome: è Silvio Berlusconi, il sottinteso modello negativo di leader che recita la vita «come un teatrino, uno studio televisivo dalle pareti di cartongesso», a cui gran parte del libro s' ispira e si rivolge. La maledizione di una classe dirigente arrogante, ma al tempo stesso volatile e insicura, è secondo Celli alla base della decadenza che ha colpito l' Italia su tutti i fronti, sia su quello aziendale che su quello politico, diventati ormai intercomunicanti. «Nessuna élite degna di questo nome è mai nata nel deserto culturale in cui il confronto, il dibattito, la messa in discussione di idee, di punti di vista o di scelte di vita (in una parola: di valori), fossero considerati un inciampo per un pragmatico affermarsi degli interessi individuali o di gruppo, come scelta di fondo». Al fallimento e alla rinuncia della grande impresa s' intreccia così l' indebolimento della politica alta, producendo la legittimazione incrociata tra sistemi deboli. E siamo al «deserto narrativo» in cui, «inariditi gli antichi racconti che avevano celebrato il successo di uomini e imprese spesso memorabili (Olivetti, Pirelli, Fiat, Eni, Iri ), c' è dato solo di constatare la mancanza di nuovi filoni di racconto, di nuovi casi emblematici a cui poter attaccare nuovo slancio e nuova vitalità imprenditoriale». Resta il mito delle piccole e medie imprese, come serbatoio di ricchezza del Paese e sua assicurazione sul futuro. «Il piccolo - risponde Celli - ha fatto più della sua parte, ma il respiro, in difetto di strutture di supporto, di reti di connessione, di servizi rapidi ed efficienti, di istituzioni che non sanno uscire da una cronica irriformabilità, non può che restare corto». E allora? Allora non basta turare le falle, farsi il lifting. «Bisogna rovesciare il modello: dare per scontato che ciò che è piccolo e vitale può continuare anche a crescere, ma è alla politica vera che bisogna tornare se si vuole offrire un ancoraggio serio a quanti cercano un orientamento e una prospettiva». La politica «vera» come grimaldello per riproporre quella mediazione fra locale e globale fallita dalla grande industria: per riavviare un dibattito alto, ma soprattutto per tirare su nuovi «produttori di luoghi». Il vero leader, per Celli, è chi riempie di senso uno spazio e un tempo che prima non c' erano o non erano riconoscibili. Solo con gente così, che non ha bisogno di teatrini, si può rianimare un organismo ormai sull' orlo del collasso.

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