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17 giugno 2004

Una rete piena di buchi

A nove mesi dal blackout del 28 settembre, l'Italia brancola ancora nel buio. Sappiamo che i principali responsabili di quelle ore drammatiche sono stati gli operatori svizzeri, che non hanno comunicato con sufficiente chiarezza la gravità della situazione. Ma i difetti della rete italiana, che hanno consentito al grande buio di estendersi su tutta la penisola (tranne la Sardegna) e di rimanerci in certe zone per 19 ore filate, non sono ancora stati individuati nei dettagli. Conclusa la settimana scorsa l’indagine conoscitiva dell’Autorità, partono ora le inchieste formali fra produttori, distributori e Grtn per capire che cosa non ha funzionato in casa nostra, perché svizzeri e francesi hanno risolto i loro problemi in pochi minuti mentre da noi ci sono stati quattro morti e danni per 380 milioni di euro. E se siamo ancora in fase d’istruttoria, è legittimo supporre che le carenze di allora non siano state corrette, tranne i difetti più evidenti, come la congestione delle 16 linee d'interconnessione con l'estero, drasticamente ridotta dal Gestore della rete. Dai rilievi dell’Autorità si deduce che la principale imputata è la rete di trasmissione nazionale, in questi giorni al centro dell'attenzione degli investitori per il maxi collocamento di Terna previsto per oggi. La rete italiana ad altissima tensione è lunga 22.318 chilometri: 74,1 metri di cavo per ogni chilometro quadrato. In Germania ce ne sono 110,7, in Francia 86,4, in Austria 74,2 (ma la densità di popolazione è la metà della nostra). Perfino le linee greche sono più robuste, con 80,6 metri di cavo per chilometro. “La rete è ferma da almeno cinque anni – spiega Davide Tabarelli, direttore del Rie (Ricerche industriali energetiche) di Bologna – e quindi c’è poco da stupirsi che sia andata in tilt al primo imprevisto. In un caso come quello accaduto in settembre, un sistema che si rispetti dovrebbe quantomeno avere un automatismo per isolare Piemonte e Lombardia dal resto d’Italia”. Malgrado l'entusiasmo dei risparmiatori per un titolo sicuro come un Bot ma più remunerativo, agli italiani infatti non piace avere Terna in casa. Da Rapolla in Basilicata alle vette della Valcamonica o della Valtellina, nessuno ama i tralicci e l’inquinamento elettromagnetico che portano. “I due casi degli elettrodotti Matera-Santa Sofia e San Fiorano-Robbia, fermi da anni per l’opposizione delle comunità locali, sono solo la punta dell’iceberg”, precisa Tabarelli. Il tracciato Matera-Santa Sofia, di cui mancano solo 7 chilometri su 200 per lo stop degli abitanti del paese di Rapolla, dovrebbe collegare la zona di Napoli – gravemente deficitaria - con le due gigantesche centrali di Brindisi, che vanno al minimo per mancanza di un mercato di sbocco. “I costi di produzione nel Napoletano – fa notare Tabarelli - sono molto più alti che altrove, proprio perché scarseggia l’energia elettrica. Ma in generale tutta l’infrastruttura meridionale è molto carente: dorsale adriatica e dorsale tirrenica sono troppo poco collegate e il passaggio di energia spesso dipende da un filo singolo invece che da una rete”. Il Sud della Calabria, dove si stanno costruendo varie centrali importanti, è quasi isolato: lo collega al resto d’Italia una linea su cui non passano più di 300 MW. Ma è inutile costruire centrali se poi l’energia non può arrivare a destinazione. “Anche Sicilia e Sardegna, che producono più di quanto consumino, avrebbero bisogno di un raddoppio delle linee, per non parlare dell’interconnessione con la Grecia”, spiega Tabarelli. All’altro capo della penisola, la tratta italiana dell’elettrodotto San Fiorano-Robbia, che aumenterebbe di un quarto (1500 MW) la disponibilità di corrente importata dalla Svizzera, è ferma da nove anni per l’opposizione delle comunità locali in Valcamonica e in Valtellina. E non entrerà in funzione nemmeno quest’estate per intoppi burocratici, malgrado l’accordo già firmato da mesi al ministero delle Attività produttive. Nel frattempo la parte svizzera, da Robbia (nei Grigioni) al confine con l’Italia, è già pronta e aspetta di essere collegata. Un'altra ciambella di salvataggio contro il blackout che galleggia da sola senza pretendenti. “Ma le carenze più vistose sono nel Nord-Est – fa notare Giuseppe Gatti di Energy Advisors – dove siamo costretti a rinunciare a una linea d’interconnessione con la Slovenia da 1300 MW già esistente, per questioni di sicurezza. La strozzatura di Dolo, vicino a Venezia, isola praticamente tutta l’area orientale del Paese, da cui potremmo importare più energia se ci fossero più linee”. Non è solo una questione di dimensioni della rete, che il piano appena varato dal Gestore prevede di ampliare di 1.900 chilometri, per un investimento di 1.700 milioni di euro. “La rete italiana dovrebbe diventare più fitta e più ramificata – commenta Piero Manzoni, responsabile dell’area Power di Siemens Italia – ma soprattutto più moderna. Gli elettrodotti non significano soltanto tralicci, ma anche cavi interrati o linee gas insulated, molto meno inquinanti. I sistemi di controllo e monitoraggio digitali, che correggono l’errore umano, sono poco diffusi”. Nel caso del 28 settembre, un sistema più efficiente di sconnessioni e reinstradamenti automatici dei flussi avrebbe limitato quell’effetto domino che ha spento perfino la Sicilia. Proprio il malfunzionamento di una serie di automatismi ha reso il blackout particolarmente devastante: dagli impianti che si sono spenti, mentre avrebbero dovuto restare accesi sui gruppi ausiliari, all’azione di alleggerimento automatico, che non ha raggiunto i livelli previsti dalle regole tecniche di connessione. “E’ stato riscontrato – precisa addirittura l’Autorità – che un certo numero di imprese distributrici connesse alla rete di trasmissione nazionale non sono dotate di dispositivi di alleggerimento automatico del carico”.Sulle responsabilità della débacle non c’è ancora chiarezza. Ma sulla necessità di potenziare la rete non ci sono dubbi.

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